domenica 3 marzo 2013

LA LINGUA COMUNE EUROPEA DI GRILLO

In una ultima recentissima intervista ad un settimanale tedesco Grillo, proclamandosi europeista convinto ha invocato la necessità d’una unificazione linguistica “una lingua comune a tutta l’Europa e non più le 11 lingue che si parlano nel parlamento europeo”.
Ho avuto la fortuna di leggere “Ritratto d’Europa” di Salvador De Madariaga, storico, diplomatico, ambasciatore spagnolo a Londra negli anni trenta e poi esiliatosi a Londra perché oppositore del regime di Francisco Franco; questo liberal-conservatore dalle intuizioni formidabili ha pennellato in poche pagine un vero e proprio “ritratto dell’Europa”, sottolineando in maniera particolare le differenze linguistiche e fonetiche tra gl’idiomi tedesco, inglese, francese, spagnolo ed italiano.
Ogni sua pennellata dimostra con stupefacente chiarezza che ad ogni vocale, che s’incontra diversamente dosata in ognuna di queste lingue, corrisponde un diverso carattere, una diversa psicologia, una differente storia, in sintesi una differente struttura del pensiero; anche la stessa lingua latina ha imboccato strade diverse a seconda di chi l’ha parlata; l’equilibrio e la razionalità dei francesi, il vitalismo e l’irruenza degli spagnoli, l’acutezza degl’italiani li si può intravedere dalla prevalenza della “E” (vocale che sta a metà strada tra l’aperta “A” e la chiusa “I”) tra i primi, della “A” e della “O” (vocali entrambe aperte) tra i secondi e una presenza della “I” (minoritaria nelle altre lingue) tra gli ultimi; e questo costituisce soltanto un piccolo ma significativo esempio.
Non solo il diverso dosaggio delle vocali ma le differenti costruzioni sintattiche e grammaticali, le distinte costruzioni verbali rappresentano il frutto di stratificazioni di storie, di caratteri ognuno dei quali con un percorso del tutto particolare ed irripetibile.
Pensare di porre nel nulla questi percorsi secolari, se non millenari, con un tratto d’inchiostro tracciato in calce ad un decreto elaborato da qualche eurocratica testa d’uovo sarebbe come voler strappare ad un bambino le caratteristiche ereditate dai genitori, rendendolo orfano della sua memoria genetica.
E dimostra uno scarso rispetto, evidentemente proporzionale al grado di ignoranza, verso la nostra comune- e al tempo stesso variegata - storia europea ed un impressionante appiattimento in quell’ideologia livellatrice che oggi pervade ogni angolo della nostra società; cancellare le lingue, versandole in uno stampo da cui uscirebbe una neolingua meticciata priva di una storia che ne abbia costruito, mattone dopo mattone, la struttura è ciò che vogliono quelle entità cosmopolite che proprio attraverso l’azzeramento del pensiero – che non solo forgia l’idioma ma è, in un’ininterrotta osmosi, a sua volta da questo forgiato - intendono svuotare di significato la funzione della nazione; di cui, infatti, proprio la lingua rappresenta il primo e più evidente segno di distinzione.
E se quella di Grillo sia stata una battuta o l’espressione d’una precisa determinazione non sappiamo, ma poco cambia; già il concepire anche solo astrattamente una simile bestialità la dice lunga su ciò che potremo aspettarci da lui.


sabato 1 dicembre 2012

AYMERIC CHAUPRADE "DOVE VANNO LA SIRIA ED IL MEDIO ORIENTE?"

Conferenza tenuta da Aymeric Chauprade a Funglode, Saint Domingue, il 27 novembre 2012. Testo integrale.

Comprendere la geopolitica del Medio Oriente è comprendere la combinazione di multiple forze.
Vedremo che occorre considerare almeno la combinazione di 3 logiche:
- le forze interne che s’affrontano nell’ambito d’un medesimo Stato, come la Siria, l’Iraq o la Libia. Dei conflitti etnici (Curdi e Arabi), o confessionali di antica data (sciiti, sunniti, alaouiti, cristiani…);
- le logiche d’influenza dei grandi attori di potenza regionale (l’Iran, l’Arabia Saudita, il Qatar, Israele, la Turchia, l’Egitto…) e la maniera in cui questi attori utilizzano le logiche comunitarie negli Stati in cui cercano d’imporre la loro influenza (Libano, Siria, Iraq);
- il gioco delle grandi potenze (Stati-Uniti, Russia, Cina, Francia, UK…) e in particolare la geopolitica del petrolio e del gas.
A questa analisi geopolitica occorre essere capaci di accompagnare un’analisi di scienza politica e di comprendere in particolare ciò che accade sul piano delle nuove correnti ideologiche del mondo arabo oppure sul piano della legittimità dei regimi politici oggi in bilico.
D’altronde è necessario che non si creda che le dinamiche che scuotono il Medio Oriente siano troppo recenti. Non si è mai avuta stabilità in Medio Oriente nelle frontiere che oggi conosciamo. Se gli antichi parlavano in proposito di colonizzazioni e protettorati di pacificazione non era per caso. Solo le strutture imperiali, fossero l’Impero Ottomano o gli Imperi occidentali o anche in una certa misura la guerra fredda tra l’Ovest e l’Est, hanno in realtà momentaneamente congelato gli scontri di clan, tribali, etnici e confessionali dal Sahara fino ai deserti d’Arabia passando per il Croissant fertile (ndt , territorio comprendente delta del Nilo, Cipro, Israele, Mesopotamia).
In realtà vi è una costante quasi universale. Là dove dei veri e propri Stati-nazione omogenei non hanno potuto formarsi, la guerra civile è divenuta una sorta di stato instabile permanente.
Per comprendere ciò che sta accadendo in Siria e le relative prospettive, comincerò con l’iscrivere la nostra riflessione in una trama globale.
Gli Stati Uniti e i loro alleati sono usciti vittoriosi dallo scontro bipolare nel 1990 e il crollo dell’URSS ha reso possibile, allo stesso tempo, l’estensione della mondializzazione liberale a numerosi paesi del mondo e delle trasformazioni geopolitiche maggiori come la riunificazione della Germania e l’esplosione della Jugoslavia.
Gli Stati Uniti hanno cercato allora, portati da questa dinamica, d’accelerare il più possibile questo fenomeno e d’imporre l’unipolarismo, vale a dire un mondo incentrato sulla loro dominazione geopolitica, economica, culturale (softpower).
Si sono appoggiati sul diritto d’ingerenza di fronte alle purificazioni etniche o alle dittature, come sulla lotta contro l’islamismo radicale (dall’11 settembre in particolare) per accelerare il loro progetto geopolitico mondiale.
Ma non hanno tenuto in conto una logica contraddittoria: la logica multipolare che è stata in una certa maniera l’effetto boomerang dell’espansione capitalistica sostenuta dagli americani dopo la caduta dell’URSS. Drogati dalla crescita, ciò che gli americani vedevano come mercati emergenti sono divenute nazioni emergenti, desiderose di contare di nuovo nella storia, di restaurare la loro potenza e di riprendere il controllo delle loro risorse energetiche o minerali. Dalla Russia alla Cina, passando per l’India, il Brasile, la Turchia fino al Qatar, dappertutto degli Stati-nazione forti della loro coesione identitaria e delle loro aspirazioni geopolitiche, s’impegnano a giocare un ruolo geopolitico crescente.
Washington ha compreso ben presto che la Cina marciava verso il posto di prima potenza mondiale e che non si sarebbe accontentata della potenza economica ma si sarebbe impegnata a diventare anche la prima potenza geopolitica. Prospettiva incompatibile col progetto geopolitico mondiale degli Stati Uniti, che dominano ancora l’Europa con la NATO, controllano l’essenziale delle riserve petrolifere del Medio Oriente e possiedono gli oceani grazie al loro formidabile strumento navale.
In questa competizione tra Stati Uniti e Cina, che già nel Pacifico fa tornare in mente gli anni che precedettero lo scontro tra gli americani e i giapponesi nella prima parte del XX secolo, il Medio Oriente ha tutto il suo rilievo.
Il Medio Oriente rappresenta il 48,1% delle riserve dimostrate di petrolio nel 2012 (contro il 64% nel 1991) e il 38,4% delle riserve di gas (2012, BP Statistical Review; contro il 32,4% nel 1991).
Per gli USA, controllare il Medio Oriente è controllare ampiamente la dipendenza dell’Asia e in particolare quella della Cina. L’AIE (Agenzia Internazionale dell’Energia) nel suo ultimo rapporto prevede infatti che l’Asia assorbirà il 90% delle esportazioni provenienti dal Medio Oriente, nel 2035.
Come ci annunciava all’inizio del mese di novembre 2012 l’Agenzia Internazionale dell’Energia, la produzione di petrolio grezzo degli Stati Uniti supererà quello dell’Arabia Saudita verso il 2020, grazie al petrolio di scisti. Gli Stati Uniti, che importano oggi il 20% dei loro bisogni energetici, diverranno quasi autosufficienti da qui al 2035.
Ricordiamo che nel 1911, quando il governo americano spezzettò la gigantesca Standard Oil (dalla quale sono nate Exxon, Mobil, Chevron, Conoco e altre ancora), questa compagnia assumeva allora l’80% della produzione mondiale. Se gli USA ridiventano primi produttori mondiali, non faremmo che ritornare alla situazione dell’inizio del XX secolo.
Tra il 1945 ed ora, uno dei grandi problemi degli americani è stato il nazionalismo petrolifero, che dal Medio Oriente all’America Latina non ha cessato di erodere il suo controllo delle riserve e della produzione. Succede dunque esattamente ciò che scrivevo già dieci anni fa (ciò che non mi fa ringiovanire !), al momento della seconda guerra d’Iraq. Gli Stati Uniti non cercano di controllare il Medio Oriente per i propri approvvigionamenti poiché essi si approvvigioneranno sempre di meno in Medio Oriente (oggi il continente africano ha un peso maggiore nelle loro importazioni) ma cercheranno di controllare questo Medio Oriente per controllare la dipendenza dei loro concorrenti principali, europei e asiatici.
Se gli americani controllano ancora il Medio Oriente nei vent’anni (e non parlo dell’Africa che non avrà sicuramente il controllo del proprio destino e sarà senza dubbio divisa tra le influenze occidentali e quella cinese), questo significa che avranno un’influenza energetica considerevole sul mondo e dunque che il valore strategico di paesi come la Russia, il Venezuela (primo paese al mondo davanti all’Arabia Saudita in riserve certe di petrolio: 17,9% contro il 16,1%, ossia 296,5 miliardi di barili di riserve sugli 1,65 bilioni del mondo: BP 2012) o il Brasile (grazie al suo off-shore profondo) sarà allora fortemente aumentato poiché essi costituiranno delle riserve alternative preziose, l’una per l’Europa e l’Asia, l’altra per l’America Latina.
Io faccio parte di quelli che non credono alla rarefazione del petrolio. Non solo perché nei fatti, e contrariamente a tutti quelli che non hanno cessato di annunciare un peak oil che non s’è mai realizzato, le riserve dimostrate non hanno mai cessato d’aumentare e che le prospettive con l’off-shore profondo e il petrolio di scisti sono gigantesche, ma oltre a ciò, perché sono convintissimo della tesi detta abiotica dell’origine del petrolio, vale a dire che il petrolio non ha per origine la decomposizione dei dinosauri nelle fosse sedimentarie ma è un liquido abbondante che scorre sotto il mantello della terra, che è prodotto a temperature e pressioni formidabili ed a profondità incredibili, e che conseguentemente quello che estraiamo è ciò che è risalito da profondità della terra attraverso la fratturazione del mantello.
Non abbiamo il tempo d’entrare in questo dibattito scientifico ma a seconda della spiegazione biotica o abiotica le conseguenze nel campo della geopolitica sono radicalmente differenti. Se il petrolio ha un’origine biotica la questione è certamente quella dell’esaurimento e delle conseguenze geopolitiche della rarefazione e poi dell’esaurimento. Se il petrolio ha un’origine abiotica, la posta in gioco è invece l’off-shore profondo e tutte le tecniche di fratturazione che permettano di far risalire il prezioso liquido dalle profondità del mantello.
Ma ritorniamo al petrolio del Medio Oriente e rammentiamo alcuni fatti essenziali.
Distruggendo il regime di Saddam Hussein, gli americani hanno ucciso nella culla due logiche ch’essi combattevano da sempre:
- il nazionalismo petrolifero in Iraq. Ed ora hanno di mira ormai il nazionalismo petrolifero iraniano;
- il rischio di uscita dal petro-dollaro: il fatto d’accettare il pagamento del petrolio in euro o in altra divisa diversa dal dollaro; ciò che Saddam Hussein aveva annunciato voler fare nel 2002 e che gli iraniani fanno oggi e che spiega ampiamente perché gli americani impongono un embargo drastico sugli idrocarburi iraniani.
Il legame tra petrolio e dollaro costituisce una delle componenti essenziali della potenza del dollaro. Esso giustifica il fatto che i paesi dispongano di riserve considerevoli in dollari per poter pagare il petrolio e, conseguentemente, che il dollaro sia una moneta principale di riserva. Ne consegue che questo legame petrolio/dollaro è ciò che permette agli Stati Uniti di finanziare il loro formidabile deficit budgetario e di permettersi un debito federale superiore ai 15.000 miliardi di dollari. Oggigiorno tutti parlano del debito e della crisi europee ma gli Stati Uniti sono, sul piano dell’indebitamento (federale, degli Stati, delle famiglie)in una situazione ben peggiore che gli europei. Ciò nonostante il loro scudo si chiama “dollaro” e si può pensare ch’essi abbiano utilizzato il tallone d’Achille greco degli europei per indebolire l’Unione Europea e rendere fragile l’euro. Immaginatevi che la crisi della Grecia non fosse scoppiata ed allora avrete ciò che accadeva prima della sua deflagrazione: le banche centrali dei paesi emergenti avrebbero continuato ad accumulare euro e a diminuire le loro riserve in dollari…Si capisce quindi ancor meglio perché la Grecia sia stata consigliata da Goldman Sachs e J.P.Morgan.
Imponendo un embargo drastico sull’Iran (9.1% delle riserve certe secondo BP 2012, ossia il terzo posto mondiale; 15,9% delle riserve certe di gas, ossia il secondo posto dietro la Russia con il 21,4% e davanti al Qatar col 12%) gli americani tentano così di spezzare uno degli ultimi paesi che vogliono controllare il proprio sistema di produzione petrolifera e di gas.
Qual è dunque il legame con la Siria? Se ne parla poco, ma la Siria gioca un ruolo strategico nelle logiche del petrolio e del gas in Medio Oriente.
Ebbene, nel 2009 e nel 2010, poco prima dello scoppio della guerra, la Siria ha operato delle scelte che sono fortemente dispiaciute all’Occidente.
Quali i dati del problema?
Dalla fine della guerra fredda gli Stati Uniti hanno cercato di rompere la dipendenza dell’Unione Europea dal gas e dal petrolio russi. Per questo hanno favorito degli oleodotti e gasdotti che s’alimentano alle riserve d’Asia centrale e del Caucaso ma che evitano accuratamente di attraversare lo spazio d’influenza russa.
Hanno in particolar modo incoraggiato il progetto “Nabucco” che parte dall’Asia centrale, passa per la Turchia (per le infrastrutture di stoccaggio) mirando così a rendere l’Unione Europea dipendente dalla Turchia (ricordiamo che gli americani sostengono ardentemente l’inclusione della Turchia nell’UE per il semplice motivo che non vogliono un’Europa-potenza), poi per la Bulgaria, Romania, Ungheria, Austria, Repubblica Ceca, Croazia, Slovenia e Italia.
“Nabucco” è stato chiaramente lanciato per far concorrenza a due progetti russi oggi in funzione:
- Northstream che collega direttamente la Russia alla Germania senza passare per l’Ucraina e la Bielorussia;
- Southstream che collega la Russia all’Europa del sud (Italia, Grecia) e all’Europa Centrale (Austria-Ungheria).
Però “Nabucco” manca d’approvvigionamenti e per far concorrenza ai progetti russi occorrerebbe la possibilità d’accedere:
1/ al gas iraniano che raggiungerebbe il punto di raccolta di Erzurum in Turchia;
2/ al gas del Mediterraneo orientale : Siria, Libano, Israele.
A proposito di quest’ultimo è essenziale sapere che dal 2009 degli sconvolgimenti considerevoli si sono prodotti nella regione.
Delle scoperte spettacolari di gas e di petrolio hanno avuto luogo nel Mediterraneo orientale, nel bacino del Levante da una parte, nel mar Egeo dall’altra.
Queste scoperte acuiscono fortemente i contenziosi tra Turchia, Grecia, Cipro, Israele, Libano e Siria.
Nel 2009 la compagnia americana Noble Energy, partner di Israele per la prospezione, ha scoperto il giacimento di Tamar a 80 km da Haifa. E’ stata la più grande scoperta mondiale di gas del 2009 (283 miliardi di m3 di gas naturale) e nel 2009, dunque, lo statuto energetico d’Israele è radicalmente cambiato, passando da una situazione quasi critica (poco più di 3 anni di riserve e una fortissima dipendenza di fronte all’Egitto) a delle eccellenti prospettive. Poi nel dicembre 2010, una scoperta ancor più considerevole ha di colpo dato ad Israele più di 100 anni di autosufficienza in materia di gas! Israele ha scoperto un mega-giacimento off-shore di gas naturale che valuta essere nella sua “zona economica esclusiva”: il giacimento Leviathan.
Leviathan è situato a 135 km ad ovest del porto di Haifa, lo si perfora a 5000 metri di profondità, con 3 compagnie israeliane e la nota compagnia americana Noble Energy. Le sue riserve sono stimate in 450 miliardi di m3 (per avere un ordine di grandezza, le riserve mondiali certe di gas nel 2011 sono di 208,4 bilioni di m3, ossia 208.400 miliardi di m3 e un paese come la Russia ne possiede 44,6 bilioni). In ogni caso nel 2010 Leviathan è stata la più importante scoperta di gas in acque profonde di questi ultimi dieci anni.
Non do qui dettagli sulle scoperte fatte parallelamente nel mar Egeo, ma esse sono considerevoli e vi domando semplicemente di tenere in considerazione che la Grecia è ormai un paese estremamente potenziale sul piano del gas, ciò che forse ha a che vedere con lo scatenamento d’una crisi europea che porterà presto…alla privatizzazione totale del sistema energetico greco…
Ecco ciò che la US Geological Survey stima a proposito del Mediterraneo orientale (formato nella fattispecie da tre bacini: bacino egeo al largo delle coste greche, turche e cipriote; bacino del Levante al largo delle coste del libano, Israele e Siria; bacino del Nilo al largo delle coste egiziane) :
“Le risorse petrolifere e di gas del bacino del Levante sono stimate a 1,68 miliardi di barili di petrolio e 3450 miliardi di m3 di gas” “le risorse non scoperte di petrolio e gas della provincia del bacino del Nilo sono stimate a circa 1,76 miliardi di barili di petrolio e 6850 miliardi di m3 di gas naturale”.
La USGS stima che il bacino della Siberia occidentale (il più gran bacino di gas conosciuto) raccoglie 18.200 miliardi di m3 di gas. In poche parole, trattandosi del solo gas, il bacino del Levante rappresenta più della metà del bacino della Siberia occidentale.
Evidentemente queste scoperte hanno acuito le rivalità tra Stati vicini. Israele e Libano rivendicano ciascuno la sovranità su queste riserve e una delle dispute profonde tra il presidente Obama e Benjamin Netanyahu sta nel fatto che gli Stati Uniti nel 2011 hanno appoggiato la posizione libanese contro Israele (poiché Beyruth ritiene che il giacimento si estende anche sotto le sue acque territoriali): sembrerebbe che la posizione americana miri da una parte a mantenere la divisione per giocare un ruolo di mediazione, dall’altra a impedire ad Israele di diventare un attore autosufficiente).
Ora, la questione siriana si trova nel cuore di queste problematiche.
In primo luogo quelle riguardanti “Nabucco”.
Nel novembre 2010, l’Arabia Saudita ed il Qatar hanno chiesto a Bachar el Assad di poter aprire degli oleodotti e gasdotti d’esportazione verso il Mediterraneo orientale. Questi oleodotti avrebbero loro permesso infatti di allentare l’obbligo del trasporto marittimo attraverso lo stretto d’Ormuz poi il canale di Suez e d’inviare maggior quantità di gas verso l’Europa (particolarmente il Qatar, gigante del gas del Medio Oriente). La Siria ha rifiutato, con il marcato sostegno della Russia che vede in questi piani la volontà americana, francese, saudita e del Qatar di diminuire la dipendenza europea dal gas russo.
Si comprende dunque la competizione che si gioca tra, da una parte, gli occidentali, la Turchia e le monarchie del golfo, dall’altra la Russia, l’Iran e la Siria, ai quali s’è aggiunto l’Iraq diretto dallo sciita Maliki e che si è fortemente ravvicinato a Teheran e Damasco a svantaggio degli americani.
Nel febbraio 2011 i primi torbidi scoppiano in Siria, torbidi che non hanno cessato d’amplificarsi con l’ingerenza, da una parte dei combattenti islamisti finanziati dal Qatar e dall’Arabia saudita, dall’altra dall’azione segreta degli occidentali (americani, britannici e francesi).
Il 25 luglio 2011, l’Iran ha sottoscritto degli accordi riguardanti il trasporto del suo gas via Siria e Iraq. Questo accordo fa della Siria il principale centro di stoccaggio e di produzione, in collegamento col Libano e l’idea di Teheran è di allentare così la costrizione dell’embargo. Congelato dalla guerra, il cantiere avrebbe stranamente ripreso il 19 novembre 2012, dopo l’elezione di Obama dunque e la ripresa delle negoziazioni segrete tra gli Stati Uniti e l’Iran.
Dal fatto stesso della sua posizione centrale tra i giacimenti di produzione dell’est (Iraq, monarchie petrolifere) e il Mediterraneo orientale, attraverso il porto di Tartous, che apre la via dell’esportazioni verso l’Europa, la Siria è una posta in gioco strategica di primo piano.
Aggiungiamo a ciò la questione dell’evacuazione del petrolio curdo.
Esiste un oleodotto che oggi incammina il petrolio di Kirkurk (Kurdistan iracheno) attraverso l’Iraq poi la Giordania ed infine Israele. Ma Israele potrebbe così veder rimesso in circolo il vecchio oleodotto Mossoul Haifa (che i Britannici utilizzarono dal 1935 al 1948).
Aggiungiamo a questo che la Siria dispone di riserve nel suo suolo e probabilmente off-shore. Il 16 agosto 2011, il ministero siriano del petrolio ha annunciato la scoperta d’un giacimento di gas a Qara, vicino a Homs, con una capacità di produzione di 400.000 m3 al giorno. Trattando di off-shore, noi abbiamo appena parlato delle stime dell’USGS riguardanti il bacino di Levante, occorre aggiungere questa previsione del Washington Institute for Near East Policy che reputa che la Siria disporrebbe delle riserve di gas più importanti di tutto il bacino mediterraneo orientale, ben superiori ancora a quelle di Israele. Ben potete vedere qui ancora il mio leit motiv e ciò che ho sempre ripetuto: l’avvenire è l’off-shore profondo e questo va a dare al mare una dimensione geopolitica considerevole. Abbandonare il mare e il proprio spazio marittimo è dunque, per qualsiasi paese al mondo, un errore strategico tragico.
E’ dunque evidente che se un cambiamento politico favorevole agli occidentali, ai turchi, sauditi e al Qatar intervenisse in Siria e questa s’isolasse dalla Russia (le navi da guerra russe sono ancorate nel porto strategico di Tartous, che può sicuramente accogliere petroliere rifornite dagli oleodotti che vi giungono), allora tutta la geopolitica energetica della regione sarebbe sconvolta a loro vantaggio. Non dimentichiamo l’Egitto, esportatore di gas naturale, il quale pure s’augurerebbe di vedere il proprio gas raccordato alla Turchia attraverso la Siria.
Questo semplice dato riguardante petrolio e gas deve farci comprendere la ragione per la quale la Siria è attaccata da turchi, occidentali e monarchie del Golfo e, inversamente, perché essa non è abbandonata né dai russi, né dagli iraniani né dagli iracheni.
Occorre ora comprendere le dinamiche geopolitiche interne della Siria.
La Siria è un paese di poco più di venti milioni d’abitanti: 80% d’arabi sunniti, 10% di alaouiti, una forma d’Islam collegata allo sciismo ma non quello dell’Iran) e 10% di cristiani.
Bachar el Assad ha al suo fianco due milioni di alaouiti ancora più risoluti di lui a battersi per la propria sopravvivenza e parecchi milioni appartenenti a minoranze che non vogliono una gestione sunnita del potere.
Occorre capire chi sono questi alaouiti. Si tratta d’una comunità sorta, al X secolo, alle frontiere dell’impero arabe e di quello bizantino, da una lontana scissione dello sciismo e che pratica un sincretismo comprendente elementi dello sciismo, del panteismo ellenistico, del mazdeismo persiano e del cristianesimo bizantino. E’ assai importante per la nostra analisi di sapere che gli alaouiti sono considerati dall’Islam sunnita come i peggiori degli eretici. Nel XIV secolo, il giureconsulto salafista Ibn Taymiyya, precursore dell’attuale wahhabismo e punto di riferimento di peso per gli islamisti del mondo intero, ha emesso una fatwa con cui si chiede la loro persecuzione sistematica ed il loro genocidio.
Questa fatwa è sempre d’attualità presso i salafiti, gli wahhabiti e i Fratelli musulmani, vale a dire tutti quelli che il potere alaouita sta affrontando in questo momento !
Prima del colpo di Stato di Hafez el Assad nel 1970, gli alaouiti non conobbero che persecuzione da parte dell’Islam dominante, il sunnismo.
Occorre inoltre sapere che ancora fino al 1970, i borghesi sunniti acquistavano per contratto notarile dei giovani schiavi alaouiti.
Le cose si sistemarono con l’installazione dell’ideologia nazionalista baathista nel 1963, che poneva il fattore dell’appartenenza araba in primo piano sopra ogni altra considerazione, e ciò soprattutto a partire dal 1970.
Riassumendo, la guerra di oggi non è che il nuovo sanguinoso episodio della guerra dei partigiani d’Ibn Taymiyya contro gli eretici alaouiti, una guerra che dura dal XIV secolo ! Questa fatwa è a mio avviso la fonte d’un nuovo genocidio potenziale (simile a quello del Ruanda) se il regime cadesse. Ecco un dato essenziale che gli occidentali fanno finta tuttavia d’ignorare.
Cacciati e perseguitati per secoli, gli alaouiti dovettero rifugiarsi nelle aride montagne costiere tra il Libano e l’attuale Turchia dando al loro credo un lato ermetico ed esoterico, autorizzandosi pure alla menzogna e alla dissimulazione (la famosa Taqqiya) per sfuggire ai loro torturatori.
Ma allora ci si può domandare: come hanno fatto questi alaouiti a giungere al potere?
Sottomessa alle occupazioni militari straniere da secoli, la borghesia sunnita della Siria (un simile processo si è prodotto in Libano) ha commesso l’errore abituale dei ricchi al momento dell’indipendenza del paese, nel 1943. Il mestiere delle armi è stato relegato ai poveri e non ai figli di “buona famiglia”. L’esercito è stato dunque costituito dalle minoranze: una maggioranza di alaouiti ma anche di cristiani, ismaeliti, drusi, sciiti.
Hafez el-Assad veniva da una di queste modeste famiglie della comunità alaouita. E’ divenuto capo dell’armata dell’aria poi ministro della difesa prima d’impadronirsi del potere attraverso un atto di forza al fine di dare alla propria comunità la sua rivincita sulla storia (coi suoi alleati drusi e cristiani).
Ben comprendete dunque con immediatezza che il regime, sostenuto da due milioni di alaouiti, senza dubbio da due a tre milioni di altre minoranze ma anche da una parte della borghesia sunnita, particolarmente di Damasco, i cui interessi economici sono ormai legati alla dittatura, non ha altra scelta che quella di lottare fino alla morte.
Quando dico lottare a morte, parlo del regime che io distinguo da Bachar el Assad. Il regime è più potente di Bachar e può sbarazzarsene se valuta che ne va della propria sopravvivenza. Ma eventualmente sbarazzarsene non significa certo installare una democrazia che porterebbe ineluttabilmente (matematicamente) al trionfo degli islamisti, come in Tunisia, in Libia, in Egitto, nello Yemen…
I cristiani di Siria hanno visto ciò che è accaduto ai cristiani d’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Vedono ciò che succede oggi in Egitto ai Copti, dopo la vittoria degli islamisti. Anche i drusi sanno, come gli alaouiti, di essere considerati come eretici da distruggere dai combattenti salafiti e dai Fratelli musulmani.
E’ assolutamente illusorio pensare, come si fa in Occidente, che gli alaouiti accetteranno delle riforme democratiche che condurrebbero meccanicamente i salafiti al potere.
Lo ripeto: l’errore consiste nel pensare che il paese sia entrato in guerra civile nel 2011. Lo era già nel 1980 quando un commando di Fratelli musulmani s’introdusse nella scuola cadetti dell’armata dell’aria di Aleppo, mise da parte degli allievi ufficiali sunniti ed alaouiti e massacrò ottanta cadetti alaouiti in applicazione della fatwa d’Ibn Taymiyya. I Fratelli musulmani la pagarono cara nel 1982 a Hama, feudo della confraternita, che lo zio dell’attuale presidente rase al suolo facendovi presumibilmente 20.000 morti. Le violenze infracomunitarie in realtà non hanno mai cessato ma questo ben poco interessava all’Occidente poiché non v’era in quel momento nessuna agenda che contemplasse petrolio e gas con riguardo alla Siria, né nessuna agenda concernente l’Iran.
Si dice che il regime è brutale ed esso è evidentemente d’una incredibile brutalità ma non è il regime in sé che è brutale. La Siria è passata dall’occupazione ottomana e i suoi metodi di scorticamento vivo al mandato francese dal 1920 al 1943, ai vecchi nazisti rifugiatisi a partire dal 1945 che sono divenuti consiglieri tecnici e successivamente ai consiglieri del KGB. E’ evidente che non ci sia nulla da sperare da questo regime in materia di diritti dell’uomo, di riforme democratiche…Ma neppure v’è nulla da attendersi dai ribelli islamisti che vogliono prendere il potere e che dispongono d’una fatwa fondamentale per organizzare un vero e proprio genocidio degli alaouiti. E d’altronde ci si aspetta qualche cosa dall’Arabia Saudita in materia di diritti dell’uomo?
Abbiamo un vero problema di trattamento dell’informazione a proposito della Siria, come l’avemmo ieri trattandosi dell’Iraq, della Jugoslavia, della Libia. Una volta di più il manicheismo mediatico occidentale è all’opera, la macchina per fabbricare i Buoni e i Cattivi, in realtà in funzione degli interessi occidentali. La fonte unica, e io dico proprio unica, dei media occidentali è l’ OSDH (Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo) il quale dà ad esempio all’Agence France Presse lo stato della situazione in Siria, il numero dei morti, dei feriti, le violenze etc …
Allora, cos’è l’OSDH? Si tratta d’una emanazione dei Fratelli musulmani che è diretta da militanti islamisti ed il cui fondatore, Ryadh el Maleh, è stato condannato per atti di violenza. Ha base a Londra dalla fine degli anni ottanta, è sotto la protezione dei servizi britannici ed americani e riceve dei fondi dal Qatar e dall’Arabia Saudita.
Oltre l’OSDH come riferimento mediatico, il referente politico dei media occidentali è il Consiglio Nazionale Siriano, creato nel 2011, a Istanbul, sul modello del CNT libico e su iniziativa del partito islamista turco, l’AKP.
Finanziato dal Qatar, il CNS è stato sciolto nella sua forma iniziale alla conferenza di Doha, all’inizio del mese di novembre 2012, da Washington. Gli Stati Uniti consideravano infatti da mesi che esso non era abbastanza rappresentativo e hanno fatto nascere al suo posto la Coalizione delle Forze dell’opposizione e della rivoluzione. La verità è che gli americani trovavano che la Francia avesse troppa influenza su quel Consiglio dove aveva piazzato l’oppositore siriano sunnita Burhan Ghalioun, professore di Sociologia alla Sorbona. Si ritrova qui una competizione franco-americana simile a quella che s’è prodotta in Libia, dove poco a poco l’influenza francese sui ribelli anti-Gheddafi è stata annullata dall’azione sotterranea degli americani. E’ bene dire che se la Francia conta su dei professori di sociologia per difendere i propri interessi in Medio Oriente, ella s’espone ad un bel po’ d’inconvenienti…
A manovrare dietro le quinte il temibile e assai intelligente ambasciatore americano Robert S.Ford, considerato come il principale specialista del Medio Oriente al dipartimento di Stato; egli fu l’assistente di John Negroponte dal 2004 al 2006 in Iraq dove applicò lo stesso metodo che in Honduras: l’utilizzo intensivo degli squadroni della morte. Poco prima degli avvenimenti in Siria fu nominato da Obama ambasciatore a Damasco e assunse le funzioni malgrado l’opposizione del Senato.
Quest’ambasciatore ha fatto porre alla testa della Coalizione delle Forze dell’opposizione e della rivoluzione una persona di cui la stampa non parla: lo sceicco Ahmad Moaz Al-Khatib.
Il suo percorso è interessante e capirete presto perché mi ci soffermo.
Egli è un ingegnere in geofisica che ha lavorato sei anni per la al-Furat Petroleum Company (1985-1991), una joint venture tra la compagnia nazionale siriana e delle compagnie straniere, tra cui l’anglo-olandese Shell. Nel 1992, eredita da suo padre la prestigiosa carica di predicatore della moschea degli Ommeyyades a Damasco. E’ immediatamente rilevato dalle sue funzioni dal regime baathista ed interdetto da ogni esercizio di predica in tutta la Siria. Perché? Perché in quell’epoca la Siria sostiene l’operazione americana “tempesta nel deserto” per liberare il Kuwait e lo sceicco vi si è opposto per gli stessi motivi religiosi impugnati da Osama Bin Laden: non vuole la presenza occidentale sopra la terra d’Arabia. Questo sceicco si trasferisce in seguito in Qatar poi, nel 2003-2004, ritorna in Siria come lobbysta del gruppo Shell. Ritorna nuovamente in Siria all’inizio del 2012 dove infiamma il quartiere di Douma (sobborgo di Damasco). Arrestato poi amnistiato lascia il paese in luglio e s’installa al Cairo.
La sua famiglia è proprio di tradizione sufi, dunque normalmente moderata ma contrariamente a quel che dice l’AFP, è membro della confraternita dei Fratelli musulmani e l’ha mostrato durante il suo discorso d’investitura a Doha. In breve, come Hamid Karzai in Afghanistan, gli americani hanno fatto uscire dal loro cilindro un lobbysta petroliere !
Ora che abbiamo fornito degli elementi d’analisi sulle forze interne alla Siria, guardiamo il gioco delle forze regionali esterne.
Come ho detto, la crisi siriana è scoppiata a causa dell’ingerenza saudita e del Qatar (sostenuta dall’ingerenze francese, britannica ed americana). L’Arabia Saudita ed il Qatar, ciascuno colle proprie clientele, difendono un progetto islamista sunnita per il Medio Oriente. Dalla Libia fino alla Tunisia e l’Egitto hanno sostenuto la primavera araba, si può anche dire che l’abbiano suscitata, portando al potere i Fratelli musulmani e i salafiti, essi stessi in concorrenza per la creazione d’una società arabo islamica riunificata in un solo e medesimo Stato islamico. Ci si potrebbe d’altronde interrogare sulla strana simmetria tra le rivoluzioni colorate sostenute dagli americani alla periferia della Russia all’inizio degli anni 2000 e le rivoluzioni arabe sostenute dal Qatar, l’Arabia Saudita e senza dubbio anche discretamente da Washington, all’inizio del 2010.
In compenso Ryad e Doha hanno bloccato sul nascere lo sbocciare d’una primavera sciita nel Bahrein intervenendovi militarmente per salvare la monarchia sunnita di fronte alla sollevazione sciita (ricordiamo che gli sciiti rappresentano il 70% della popolazione del Bahrein e non è per nulla trascurabile pure in Kuwait o negli Emirati). Fu, nel 2011, la seconda volta dopo la guerra del Kuwait che l’accordo reciproco di protezione del Consiglio di Cooperazione del Golfo, detto Scudo del deserto, fu messo in opera.
La primavera araba, di cui certi sottolineano, a giusto titolo, che s’è di fatto trasformata in inverno islamista, ha giovato fortemente ai paesi sunniti del Golfo sul piano economico. Dopo la crisi del 2008 che aveva particolarmente toccato gli Emirati Arabi Uniti, le monarchie sunnite del Golfo hanno visto affluire le fortune ammassate sotto le dittature tunisina, libica, egiziana. Questo danaro accumulato sotto i regimi crollati o che stavano per affondare non può più andare in Europa e neppure in Svizzera poiché le regole bancarie (compliance) non lo permettono veramente più. Si dirige dunque essenzialmente verso Dubai.
D’altronde, la caduta delle esportazioni di petrolio e gas libico, dovuta alla guerra del 2011 in Libia, è stata compensata da un aumento sensibile della produzione delle esportazioni dell’Arabia Saudita, del Qatar, degli Emirati Arabi Uniti, ciò che ha drogato l’economia di questi paesi nel 2011 e 2012.
Di fronte al gioco sunnita delle monarchie del Golfo, l’Iraq dominato dagli sciiti, naturalmente l’Iran e la Siria hanno formato un asse che si può qualificare come sciita, poiché gli alaouiti sono un ramo particolare dello sciismo, e che cerca di resistere alla terribile alleanza Occidente/Turchia/Monarchie sunnite del Golfo.
In questo gioco complesso si pone allora la questione del gioco d’Israele. Paradossalmente è forse il meno semplice e l’errore consisterebbe nel voler vedere Israele, con faciloneria, come “la mano nascosta che dirige”.
Israele, in effetti, ha per lungo tempo avuto come nemico principale il nazionalismo arabo. L’ideologia baathista ha combattuto l’esistenza di Israele e sostenuto il diritto dei palestinesi a recuperare la loro terra. Il progetto d’un mondo arabo unificato, sviluppato e modernizzato economicamente grazie alle risorse petrolifere, ed avanzate verso l’arma atomica (Iraq) ha a lungo costituito l’incubo principale di Tel Aviv.
Ma il nasserismo è morto, poi il baathismo iracheno dopo di lui, Resta oggi il baathismo siriano, ma è indebolito ed il sogno della Grande Siria nutrito da Damasco si pone in contraddizione da molto tempo col nazionalismo palestinese.
Il problema principale d’Israele ora, sono i Fratelli musulmani che trionfano dappertutto, Essi hanno cominciato ad installarsi attraverso Hamas a Gaza (in concorrenza con l’OLP che mantiene la Cisgiordania e questa divisione tra i palestinesi è conforme agli interessi israeliani); sono al potere in Turchia allorché l’esercito turco è stato a lungo un alleato fidato di Israele; ora l’AKP costituisce un problema per gli israeliani (ricordatevi dell’episodio della flotta di Gaza); i Fratelli musulmani sono anche al potere in Egitto dalla caduta di Mubarak (Egitto con cui, dal 1978, gli israeliani hanno un accordo di pace), sono forti in Giordania (con cui c’è un accordo di pace dal 1995), lo sono in Tunisia, in Libia, sono minoritari in Siria e cercano di prendere il potere…In breve, Israele assiste a una marea montante di Fratelli musulmani e di salafiti che invade tutto il Medio Oriente e avanza minaccioso alle sue porte e costoro non sono particolarmente favorevoli al riconoscimento del diritto d’Israele di vivere in pace. Il loro progetto di Stato islamico unificato vede Israele come gli Stati latini crociati del Medio Evo.
Ben lungi quindi la certezza che la politica americana di sostegno agli islamisti sia unanimemente approvata presso gl’israeliani. Questi si sentono sempre più soli. Questa politica pro-islamica dell’Occidente potrebbe anche spingere Israele a trovare dei padrini più fidati degli americani, la Russia, la Cina o l’India (che coopera già militarmente ed in maniera rilevante con Israele nel confronto col Pakistan)…
Israele si prepara senza dubbio, in un Medio Oriente in cui gli Stati di oggi cederebbero sempre più il posto a degli Stati o a regioni autonome omogenee sul piano confessionale (sunniti, sciiti, alaouiti…) o etnici (curdi di fronte agli arabi) a delle nuove alleanze alfine di contrastare il pericolo islamista sunnita.
Non si può escludere così’ un capovolgimento della storia in cui Israele potrebbe nuovamente avvicinarsi all’Iran, intendersi con un Iraq dominato dagli sciiti, ciò che gli permetterebbe di estinguere il problema di Hezbollah libanese, sostenere un piccolo ridotto alaouita in Siria, ugualmente uno Stato curdo …Non dimentichiamoci infatti che il problema principale che determina tutto per gl’israeliani è quello palestinese. Se i palestinesi di Hamas si gettano nelle braccia del Qatar e dell’Arabia Saudita (ricordiamoci della visita storica dell’emiro del Qatar all’inizio di novembre a Gaza), allora l’ipotesi dell’alleanza sciita non è da escludersi.
Come ho già detto, un dato essenziale è che sul piano energetico Israele dispone dell’autosufficienza per il gas e che sul piano petrolifero nulla impedisce domani, se vi fosse il capovolgimento strategico, che il petrolio gli giunga dal Kurdistan iracheno o dagli sciiti dell’Iraq o dell’Iran.
Il nucleare iraniano in tutto questo? La risposta alla prospettiva del nucleare iraniano è vostro avviso in una guerra suicida contro l’Iran o in un’intesa con un futuro Iran nucleare contro l’Islam sunnita? La risposta mi sembra contenuta nella domanda.
Credo personalmente che la relazione USA/Israele è destinata ad allentarsi semplicemente perché gli americani sono sempre meno governati da WASP (white anglo-saxons protestants) che per molti erano convinti della dimensione sacra d’Israele (cristiani sionisti) e che per ragioni identitarie (cambiamento etnico della popolazione statunitense) questo fenomeno è quasi irreversibile. Credo che lo stesso problema si ponga in Europa. Il cambiamento di popolazione nell’Europa dell’ovest, l’islamizzazione d’una parte della popolazione va a contribuire all’installazione durevole di governi di sinistra o socialdemocratici che saranno sempre meno favorevoli ad Israele e sempre più influenzati da minoranze musulmane attive. Un indicatore di questa tendenza di fondo è che la maggioranza delle estreme destre europee che avevano una tradizione antisemita stanno diventando al contrario antimusulmane e proisraeliane.
In conclusione cerchiamo di tracciare qualche prospettiva, anche se è assai difficile predire l’avvenire in Medio Oriente.
In primo luogo, anche se ha di fronte a sé la maggioranza della sua popolazione, penso che il regime siriano può tenere a lungo poiché non è isolato. In secondo luogo, la sua coesione interna è forte per le ragioni che evocavo (una guerra di sopravvivenza per le minoranze confessionali al potere); in terzo luogo il sostegno della Russia è fermo. E il regime, infine, non è rinserrato in una enclave poiché è legato ai suoi vicini iracheno ed iraniano che lo sostengono.
Dunque la situazione attuale può perdurare ed il conflitto deteriorarsi. 37.000 morti secondo l’ODSH (fonte, la ribellione) al 10 novembre 2012 e 400.000 rifugiati siriani (Turchia, Libano, Giordania, Iraq)? Certamente sono cifre enormi, ma numerose sono anche le guerre civili che hanno superato 100.000 morti e che si sono risolte col ritorno agli equilibri iniziali. Non è il numero dei morti o anche la maggioranza che determinano l’esito: sono i rapporti di forza reali, interni, regionali e mondiali.
Se il regime comunque arrivasse a crollare, io non considererei neppure per un secondo la possibilità per le minoranze d’accettare di restare nel quadro nazionale attuale senza l’ottenimento di garanzie occidentali estremamente forti quanto alla loro sicurezza fisica. E anche con queste garanzie avrei dei dubbi. Esse segnerebbero la loro sentenza di morte ove si consideri che. stranamente, i francesi e gli americani che sostengono ed armano la ribellione non hanno domandato alcun impegno “anti-genocidio” dopo l’eventuale caduta di Bachar. Si può immaginare allora l’Iran e l’Iraq o accogliere queste minoranze, o favorire, con l’appoggio della Russia, la formazione d’un ridotto alaouita con, in particolare, un corridoio strategico fino a Tartous. Ma il problema resterebbe intero poiché ciò che vogliono gli occidentali è l’accesso siriano al Mediterraneo ed il transito petroliero e del gas attraverso il territorio della Siria.
Ma a rischio di sorprendervi, penso che l’abbassamento della mediatizzazione da parte dell’Occidente del conflitto siriano è il sintomo d’una realtà: l’Occidente sta per perdere la guerra in Siria. Esso può sostenere il terrorismo a Damasco e contro le forze di sicurezza, le quali oppongono una repressione crudele, ma non dispongono della capacità d’abbattere l’apparato di sicurezza siriano. L’esercito siriano dispone del dominio dello spazio aereo e non sarà certo dall’oggi al domani che la Francia e gli Stati Uniti si prenderanno la responsabilità d’una guerra mondiale con la Russia. Dunque credo che il regime terrà. Si è arrivati alla situazione strana in cui la Francia deve regolare il problema di Al Qaida nel Mali e sostiene indirettamente Al Qaida in Siria. Il mondo è decisamente folle.
Una volta di più, tutto riporta alla questione iraniana. L’Iran è la chiave del futuro Medio Oriente. Se l’Iran ritorna alla sua alleanza strategica con gli Stati Uniti precedente alla rivoluzione sciita islamica del 1979, allora si può pensare che gli Stati Uniti ed Israele s’appoggeranno sullo sciismo per fare da contrappeso ad un Islam sunnita globalmente ostile all’Occidente. Ma un’altra ipotesi è possibile: che gli USA, la Francia (non dimentichiamo che le priorità oggi sono Doha e Ryad) e la Gran Bretagna, vicini alla Turchia (membro della NATO) restano fortemente alleate alle monarchie sunnite e trattengono dei buoni rapporti con le repubbliche dominate dai Fratelli musulmani (Tunisia, Egitto, ma quid dell’Algeria domani?) ed allora non si può escludere che Israele si stacchi dall’Occidente per ravvicinarsi ad un asse Russia/mondo sciita ostile alla Turchia e alle monarchie petrolifere.
Resta in sospeso anche l’eterna questione curda con il gioco della Turchia.
Infine non si dovrebbero dimenticare le inquietanti evoluzioni in certi paesi d’Europa dell’ovest come la Francia, il Regno Unito, il Belgio, paesi dove delle minoranze musulmane sunnite sempre più strutturate sul piano identitario, sempre più rivendicative sul piano dell’Islam, sempre più finanziate dalle monarchie sunnite (vedere gli investimenti del Qatar in Francia), vanno senza dubbio a giocare un ruolo crescente nella definizione delle politiche estere di questi paesi. Come sapete, in materia di politica estera (lo si è visto a lungo trattando della lobby ebrea negli Stati Uniti) non sono le maggioranze dormienti che pesano nella decisione, sono al contrario le minoranze attive organizzate. Ora nell’ovest d’Europa, ciò che si è a lungo chiamata la lobby ebrea è sempre più debole e subisce la concorrenza della lobby pro musulmana o pro araba, particolarmente nei partiti di sinistra.
Una cosa, alla fine, è certa: prima che noi giungiamo a dei nuovi equilibri nel Medio Oriente, il cammino sarà lastricato di numerose sofferenze…
Aymeric Chauprade

martedì 23 ottobre 2012

I CINQUANT'ANNI DEL CONCILIO VATICANO II: MEZZO SECOLO DI CATACLISMI

I CINQUANT’ANNI DEL CONCILIO VATICANO SECONDO: MEZZO SECOLO DI CATACLISMI Traduzione dell’articolo apparso sul numero 3064 di Rivarol “Le cinquante ans de Vatican II: un demi siècle cataclysmique” di Jérôme Bourbon) Cinquant’anni sono trascorsi da quel giorno di ottobre del 1962 che vide la riunione nella basilica di San Pietro a Roma di 2381 vescovi venuti dal mondo intero (eccetto che dai paesi comunisti) all’appello di Giovanni XXIII per la cerimonia d’apertura del “Secondo Concilio ecumenico” che si sarebbe poi protratto fino all’8 dicembre 1965. Se si dovessero elencare i principali avvenimenti del XX° secolo, il Vaticano II figurerebbe in evidenza, tanto ha provocato nelle coscienze, nei costumi e nelle istituzioni dei capovolgimenti fondamentali di cui non abbiamo ancora valutato l’esatta misura. Questa assemblea di vescovi, che a differenza dei venti concili ecumenici da Nicea a Vaticano I, non ha definito né esplicitato dogmi, non ha proceduto attraverso canoni e anatemi, ha aperto la via ad una nuova religione che porta sempre ufficialmente il nome di cattolica ma la cui sostanza e le cui finalità non sono più per nulla le stesse. E’ un caso se i partigiani del Vaticano II hanno parlato, dall’inizio, come il cardinale Benelli di “chiesa conciliare” o come Paolo VI di “nuova Pentecoste”? Ugualmente, il cardinale Suenes notava che “il Vaticano II è il 1789 nella Chiesa”, mentre Padre Congar aggiungeva eloquentemente che attraverso il concilio “la Chiesa aveva compiuto pacificamente la sua rivoluzione d’Ottobre” Espressioni che dimostrano che il Vaticano II marca una rottura radicale con quasi 2000 anni di cattolicesimo e inaugura una nuova religione, quella dell’umanità. IL CULTO DELL’ UOMO Il concilio ha introdotto una nuova maniera di porsi in rapporto a Dio. Pretendendo che l’uomo è cambiato, i Padri Conciliari ne deducono che occorre anche modificare il rapporto dell’uomo verso Dio passando dal teocentrismo all’antropocentrismo. Inversione radicale dei fini : la religione non è più al servizio di Dio ma al servizio dell’umanità. ”L’uomo è la sola creatura di Dio creata per lei stessa” , “l’uomo è il centro e il culmine di tutte le cose” osa affermare la costituzione Gaudium et Spes. E Paolo VI, nel suo strabiliante discorso di chiusura del Concilio giungerà perfino a dire: “La religione di Dio che s’è fatto uomo s’è incontrata colla religione - poiché di ciò si tratta – dell’uomo che si è fatto Dio (…) Anche noi, noi più che chiunque, noi abbiamo il culto dell’uomo”. Se quest’ultimo è il fine e il culmine di tutto, occorre evidentemente ripensare tutta la teologia cattolica. La chiesa conciliare si definisce come un mezzo, una istituzione (tra molte altre), un segno al servizio dell’uomo. E’ la famosa teoria della Chiesa-Sacramento. Giovanni Paolo II potrà così dire che “la Chiesa ha rivelato l’uomo a sé stesso” o ancora che “l’uomo è il cammino della Chiesa “. Se questo è il caso, si comprende che la liturgia abbia allora per obbiettivo di celebrare l’umanità, soggetto del rito sacro e del sacerdote. Da qui gli altari girati verso l’assemblea dei fedeli di cui il prete non è che l’animatore, la nuova messa non essendo più gerarchica ma democratica. Da qui il rigetto del carattere propiziatorio del santo sacrificio della messa. La « messa di Lutero » (dixit Mons. Lefebvre) i cui studi dettagliati hanno provato le origini non soltanto protestanti ma talmudiche, si definisce come la « sinassi sacra dei fedeli », così come afferma l’articolo 7 del Novus ordo missae di Paolo VI. La celebrazione detta dell’eucarestia non è più il memoriale della croce ma quello della cena. E’ la dottrina della messa-banchetto. LA SERVETTA DEL MONDIALISMO Secondo questa nuova teologia non è più la chiesa cattolica ad essere il regno di Dio ma l’umanità tutta intera. La missione della chiesa conciliare sarà allora quella di preparare l’avvento di questo regno temporale verso il quale convergono tutte le religioni poiché il genere umano tende nei fatti ad una crescente unità i cui segni sono “la socializzazione di tutte le cose, la condivisione delle ricchezze, la rivendicazione dei diritti dell’uomo”. Il ruolo della nuova chiesa si riduce ad affrettare questo processo d’unificazione. E’ così che si giustificano il dialogo inter-religioso, l’ecumenismo liberale che sono al servizio d’una pace in divenire. Da qui i raduni sincretistici come Assisi o catodici come le giornate mondiali della gioventù, destinati secondo i disegni dell’ONU, a preparare l’avvento d’un mondialismo politico-religioso, vale a dire d’un governo mondiale e d’una religione ella stessa mondiale confinata nel ruolo di animatrice della democrazia universale. In questo schema, la realità sociale di Gesù Cristo appare evidentemente obsoleta. Così la chiesa conciliare si schiera con entusiasmo alla laicità dello Stato e, alla bisogna, l’impone con la forza come in Spagna – 1967 – e in Colombia – 1973 - che a espressa domanda di Paolo VI abbandonano le loro costituzioni cattoliche. Questa unità spirituale del genere umano si declina in differenti gradi di comunione, in multipli cerchi concentrici; le coscienze sono più o meno illuminate dalla fede ma nessuno potrebbe esserne escluso poiché “in un certo modo, il Cristo s’è unito a ogni uomo” (Gaudium et Spes). Non v’è allora più bisogno d’essere battezzati e di credere per salvarsi. La questione della salvezza e della dannazione ha perduto ogni urgenza e anche ogni senso. E in effetti la pastorale conciliare evita il peccato originale e la caduta della natura umana. La salvezza non è ormai che una presa di coscienza personale, essendoci l’uomo ad affermare la propria straordinaria dignità. E’ da dire che Vaticano II è in rottura totale non solamente con la Tradizione cattolica ma più generalmente colla religione cattolica poiché questo concilio trova la propria ragione nell’esaltare la persona umana ed assicurare l’unità del genere umano . LA GENESI DEL CONCILIO Qual è lo svolgimento degli avvenimenti che ha condotto a una tale rivoluzione copernicana? Di fatto tutto inizia diciannove giorni dopo la morte di Pio XII, con l’elezione a settantasette anni, all’undicesimo giorno di scrutinio, il 28 ottobre 1958, del patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli. Questi, che in modo assai rivelatore prende il nome d’un antipapa coinvolto nel grande scisma d’occidente, Giovanni XXIII, intende rompere spettacolarmente con i grandi orientamenti definiti da Pio XII. Roncalli mette in opera una strategia che porterà a ciò ch’egli chiamerà « l’aggiornamento» ossia alla rivoluzione nella chiesa. Appena eletto, colui che sarà chiamato dai media «il papa buono» riceve significativamente i più vivi incoraggiamenti dai principali nemici della Chiesa cattolica.. Yves Marsaudon nel suo libro “L’oecuménisme vu par un franc-maçon de tradition” scrisse così : «Avemmo sùbito la grandissima gioia di ricevere nelle 48 ore un cenno di riscontro del ricevimento delle nostre rispettose felicitazioni. Per noi era una grande emozione, ma per molti dei nostri amici questo fu un segno”. Ugualmente Giovanni XXIII riceve le felicitazioni del gran rabbino d’Israele Isaac Herzog, dell’arcivescovo anglicano Geoffroy Fischer, di Paul Robinson, presidente delle Chiese Federate e infine del capo della Chiesa ortodossa russa, il patriarca Alexis. Dal 25 gennaio 1959, ossia meno di tre mesi dalla sua elezione, Roncalli annuncia pubblicamente dalla basilica di San Paolo fuori le mura la convocazione del “secondo concilio ecumenico del Vaticano”. Anche Pio XII aveva pensato di riunire una tale assemblea ma, davanti ai pericoli dell’impresa, s’era rapidamente ravvisato: “Sento attorno a me dei novatori – diceva – che vogliono smantellare la Cappella sacra, distruggere la fiamma universale della Chiesa, rifiutare i sui ornamenti, darle il rimorso del suo passato storico…Verrà un giorno in cui il mondo civilizzato rinnegherà il suo Dio, in cui la Chiesa dubiterà come Pietro ha dubitato. Essa sarà tentata di credere che l’uomo è divenuto Dio, che suo figlio non è che un simbolo, una filosofia come tante altre, e nelle chiese i cristiani cercheranno invano la lampada rossa dove Dio li aspetta, come la peccatrice che grida davanti alla tomba vuota: dove l’hanno messo?” (Mons. Roche : “Pie XII devant l’Histoire”). Pio XII e Giovanni XXIII erano entrambi al corrente di questa situazione prerivoluzionaria nella Chiesa, ma mentre il primo non voleva cedere alle sirene delle novità, il secondo al contrario fremeva nel voler tutto trasformare. Chiamare alla convocazione d’un concilio il 25 gennaio 1959 non era certo, a questo riguardo, un atto innocente, poiché questa data segnava la chiusura della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Il concilio imminente non sarebbe stato dunque ecumenico (ossia universale, come lo furono i venti concili da Nicea a Vaticano II), ma ecumenisti. Del resto, l’anno seguente, il 5 giugno 1960, Giovanni XXIII crea un Segretariato per l’unità dei cristiani di cui affida la direzione al cardinal Bea, il quale è direttamente all’origine del decreto sull’ecumenismo di Vaticano II che rompe radicalmente col magistero anteriore. Nel suo discorso d’apertura, Giovanni XXIII tiene un discorso che fece sensazione proclamando la sua “fede” nell’avvenire e nel progresso. A cinquant’ anni di distanza, quest’ ottimismo vistoso appare totalmente fuori luogo. Che lo si giudichi : « Nell’attuale situazione della Società, certi non vedono che rovine e calunnie ; essi hanno abitudine di dire che al nostra epoca è profondamente peggiorata, in rapporto ai secoli passati… Ci sembra necessario esprimere il nostro completo disaccordo con questi profeti di sciagura che annunciano sempre delle catastrofi, come se il mondo fosse vicino alla sua fine… Occorre che la Chiesa si giri verso i tempi presenti che daranno nuove vie all’apostolato cattolico». UNA ROTTURA RADICALE Dunque, lo schema era messo in opera, per la più grande rivoluzione che la Chiesa abbia subito dalla sua nascita. Tra i 2381 vescovi presenti, soltanto dai tre ai quattrocento Padri conciliari (tra cui Mons.Lefebvre e Mons.de Castro Mayer) tentarono di resistere agli assalti dei modernisti raggruppandosi in seno al Coetus internationalis patrum, ma questo combattimento non fu purtroppo coronato dal successo, tanto la minoranza attivista era abile nella manipolazione delle masse, esperta nelle formule volontariamente equivoche, tanto più, ed è qui il punto essenziale, ch’ella poteva appoggiarsi su un alleato indispensabile nella persona di Giovanni XXIII e poi, a partire dal 1963, del suo successore Paolo VI. Occorrerebbero degli studi dettagliati — e in questi ultimi decenni non ne sono mancati — per analizzare, sezionare, commentare le circa duemila pagine di documenti firmati dai Padri conciliari e “promulgati” da Paolo VI il 7 dicembre 1965 e per spiegare l’assenza d’autorità e di legittimità del Vaticano II e degli uomini in abito bianco che vi si affidano. Si può a buon diritto considerare che Vaticano II era nei fatti un conciliabolo e non un vero concilio, tanto questi decreti hanno rotto col magistero tradizionale. E’ chiaro che Vaticano II ha voluto far passare la Chiesa dal teocentrismo all’antropocentrismo. Niente sotto questo aspetto è più eloquente del discorso di chiusura di Paolo VI : « La Chiesa del concilio s’è anche molto occupata dell’uomo, dell’uomo tale come in realtà si presenta alla nostra epoca, l’uomo vivente, l’uomo nella sua interezza occupato di sé, l’uomo che si fa non soltanto il centro di tutto ciò che l’interessa, ma che osa pretendersi il principio e la ragione ultima d’ogni realtà . L’umanismo laico e profano, alla fine, è apparso nella sua terribile statura e ha, in un certo senso, sfidato il concilio. La religione di Dio che s’è fatto uomo s’è incontrata colla religione — poiché di ciò si tratta — dell’uomo che s’è fatto Dio. Che cosa è successo? Uno choc, una lotta, un anatema ? Questo poteva accadere , ma non ha avuto luogo. La vecchia storia del Samaritano è stata il modello della spiritualità del concilio. Una simpatia senza limiti l’ha invaso interamente. La scoperta dei bisogni umani (e sono tanto maggiori quanto il figlio della terra si è fatto più grande) ha assorbito l’attenzione del concilio. Riconoscetegli almeno questo merito, voi, umanisti moderni che rinunciate alla trascendenza delle cose supreme, e sappiate riconoscere il nostro nuovo umanesimo. Anche noi , noi più che chiunque, abbiamo il culto dell’uomo. » “1789 NELLA CHIESA” Nessuna espressione potrebbe meglio definire il modo in cui le gerarchie ecclesiastiche hanno rinunciato ad essere un segno di contraddizione, aprendosi totalmente al mondo vale a dire all’errore, alla menzogna e all’apostasia, girando le spalle alle ingiunzioni dell’Apostolo San Giacomo che nella sua epistola grida forte : « Adulteri, non sapete che l’amicizia del mondo, è l’inimicizia contro Dio ? Chiunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio. » Come conseguenza, la Chiesa cattolica s’eclissava, era sotterrata, cedendo il posto alla chiesa conciliare e alla sua “rivoluzione d’ottobre” . Infatti il Vaticano II è riuscito ad applicare il motto della rivoluzione: la “libertà” si è introdotta attraverso la libertà religiosa o libertà delle religioni che mette sullo stesso piano l’errore e la verità, promuove la laicità dello Stato e nega il regno sociale di Gesù Cristo ; l’“uguaglianza” s’insinua attraverso la collegialità e il velenoso principio dell’egualitarismo democratico (in questo schema il vescovo non è più il padrone nella sua diocesi con le conferenze episcopali, il sacerdote nella sua parrocchia con i consigli parrocchiali, etc.) ; infine la “fraternità” si compie sotto forma di ecumenismo liberale che abbraccia tutti gli errori e le eresie e tende la mano a tutti i nemici della Chiesa cattolica, a cominciare dagli ebrei considerati come « fratelli maggiori ». La chiesa conciliare arriva anche fino ad insegnare che l’Antica Alleanza è sempre valida e ch’essa non è stata abrogata dalla Nuova Alleanza, ciò che è una maniera di dire, se si è logici, che la venuta di Cristo sulla terra ,la sua Passione, la sua morte e la sua Resurrezione furono alla fine inutili. L’accademico Jean Guitton, confidente ed amico di Paolo VI, amava ripetere che Vaticano II segnava la sparizione (almeno apparente) della Chiesa cattolica e la sua sostituzione con la chiesa ecumenica romana. Infatti , la nuova chiesa conciliare non possiede nessuna delle quattro caratteristiche che permettono di riconoscere a colpo sicuro la Chiesa Cattolica: essa non è né “una” poiché è democratica e pluralista (ad ogni prete la sua eresia), né “santa” poiché ha profondamente alterato i sacramenti creando dei nuovi riti che sollevano dubbi se non invalidi per la maggior parte (tema essenziale di cui non ci si preoccupa abbastanza) accanendosi così ad ostruire i canali della grazia santificante, né “cattolica” poiché è ecumenista e rompe radicalmente col magistero anteriore e neppure “apostolica” poiché non ha la fede degli Apostoli. In questa gigantesca impresa di distruzione niente è lasciato intatto: né la liturgia desacralizzata, né il catechismo tradizionale interdetto e sostituito da una vaga catechesi stile “diritti dell’uomo” ed ecumenista, neppure le costituzioni religiose, ne l’abito ecclesiastico, né gli Stati, sindacati, scuole e partiti cristiani tutti chiamati a fare la loro mutazione. A una Chiesa nuova corrispondono sacerdozio nuovo, ecclesiologia nuova, messa nuova, catechismo nuovo (1968 con Pietre Viventi e 1992 con il “Catechismo della Chiesa cattolica”), sacramenti nuovi, comunità nuove, nuovo cammino della Croce (1991), nuovo Rosario (2002), nuovo codice di diritto canonico (1983), nuovo rito d’ordinazione (1968), nuovo battesimo (1969), nuova cresima (1971), nuova estrema unzione (1972), nuova confessione (1973), nuovo breviario (1970), nuovo calendario liturgico (1969), nuovi oli santi (1970), nuovo Pater Noster (1966), nuovo Credo (dove è stata sostituita l’espressione « consustanziale al Padre » con « della stessa natura del Padre »). Tutto è stato detto sulle origini talmudiche della sinassi voluta da Paolo VI, sull’abbandono del carattere propiziatorio del santo sacrificio della messa, sull’eterodossia del nuovo codice di diritto canonico del 25 gennaio 1983 che toglie la scomunica dei massoni. Non è rimasta perfino la morale a non essere corrotta dall’inversione dei fini del matrimonio, dall’abbandono del principio tradizionale dell’autorità dell’ uomo sulla donna, dai discorsi strabilianti pronunciati da numerosi sacerdoti senza ch’essi siano mai sanzionati. In una volontà satanica di distruzione si puntano anche le congregazioni religiose le cui costituzioni sono tutte profondamente modificate, compresa quella dei Certosini che pur non era stata mai ritoccata dall’epoca del suo fondatore San Bruno. E le stesse chiese sono trasformate : all’altare maggiore girato verso Dio si sostituisce una semplice tavola orientata verso l’assemblea ; il prete (o quello che ne ha occupato il posto) è ridotto al ruolo d’animatore e di presidente d’una cerimonia secolarizzata. I confessionali sono abbandonati e fanno spesso il servizio di sgabuzzini per le scope. La sedia è soppressa o abbandonata, maniera simbolica di rinunciare al potere d’insegnamento della Chiesa, poiché nella religione conciliare non ci troviamo più nello schema della Chiesa maestra di verità che insegna al mondo la via, la verità e la vita ma in quello d’una chiesa che impara dal mondo, apprendendo al suo contatto, reagendo all’unisono. Si tratta di mettere in opera le condizioni d’un mondialismo politico-religioso ; nel nuovo ordine mondiale le religioni poste su un piano d’uguaglianza non sono in effetti che semplici animatrici e zelanti propagandiste della democrazia universale e dei suoi idoli : la dichiarazione dei diritti dell’uomo, il filosemitismo, la tolleranza eretta all’assoluto, il laicismo, la libertà di coscienza e di culto, l’antirazzismo unilaterale ed obbligatorio, la lotta accanita contro tutte le discriminazioni, anche naturali e legittime. NUOVI ORIENTAMENTI POLITICI Da qui gli orientamenti politici d’una nuova chiesa, compagna di strada del comunismo, del socialismo, della frammassoneria, delle organizzazioni ebree ed antirazziste, in breve dei nemici tradizionali e secolari della Chiesa cattolica. Dunque, non vi è niente di strano nel fatto che l’episcopato francese abbia sempre preso violentemente posizione contro la destra nazionale, preferendo sostenere le forze responsabili dell’aborto legalizzato e rimborsato, dello squagliamento della famiglia, dell’instaurazione dei Pacs, della generalizzazione della pornografia e della lussuria. Nulla di sorprendente neppure se questa nuova chiesa, dopo aver favorito la decolonizzazione e mostrato molta più mansuetudine per gli assassini e i “porteurs de valise” (1) del FLN che per i rimpatriati e i sostenitori dell’Algeria francese, sia uno dei rumorosi sostegni dell’immigrazione di massa, essenzialmente maomettana, che non cessa di riversarsi nel nostro paese e nel nostro continente. Dopo aver tradito Dio e il suo Vangelo, questi gerarchi hanno logicamente tradito la loro patria. Vaticano II, che è rimasto muto sul comunismo nel momento in cui provocava ancora milioni di morti, ha messo in opera l’apertura al mondo che è nei fatti un’ apertura unilaterale alla sinistra. Da qui la teologia della liberazione in America del Sud. Da qui la simpatia incessante manifestata verso il marxismo, il progressismo (che non ci si scordi della dichiarazione dei vescovi di Francia che approvarono calorosamente il maggio 1968), il femminismo (l’episcopato modernista s’è rallegrato nel 2000 dell’adozione della parità), l’invasione straniera. Poiché la religione del Vaticano II consiste nell’ abbracciare, e se possibile ad anticipare, tutte le mode, ad adattarsi al mondo moderno e ad inginocchiarsi, meravigliata, davanti all’Umanità deificata. Debole coi forti, i delinquenti, gl’immigrati “sans-papiers”, essa è spietata verso i deboli, i perseguitati, gli abbandonati. Neanche un solo prelato ha denunciato il trattamento inflitto all’epoca al nonagenario Maurice Papon o ai revisionisti crivellati d’ammende e messi in prigione. Neanche un solo prelato ha preso le distanze dalle campagne d’ odio contro il presidente del Front national, neppure in occasione delle manifestazioni tra i due turni delle presidenziali del 2002 dove erano scanditi tra gli altri graziosi slogan « per Le Pen una pallottola, per il FN una raffica», « Crepa carogna », « Le Pen fascista, maiale, il popolo avrà la tua pelle ». Al contrario, la nuova chiesa si pretende in prima linea nella lotta antirazzista, antifascista e antirevisionista. Dato che se è assolutamente permesso nella chiesa conciliare di contestare delle verità di fede o dei precetti morali, in compenso non si scherza col dogma olocaustico, come lo testimonia il caso Williamson. Meglio allora per un seminarista negare la verginità perpetua di Maria che esprimere un dubbio sulla Shoah. Servente dell’Umanità, la contro-chiesa del Vaticano II è in effetti uno dei guardiani vigilanti della contro-religione dell’Olocausto. La chiesa che non è più cattolica è divenuta democratico- olocaustica, la natura avendo orrore del vuoto. Ebbene, la Shoah o la Croce, bisogna scegliere ! LE CAUSE DI QUESTO RIBALTAMENTO Resta evidentemente a domandarsi come un simile rovesciamento sia stato possibile e perché abbia suscitato così poche resistenze. Non v’è una risposta semplice a queste domande. Si può a buon diritto incriminare il ruolo della potenza ebraica e del suo braccio armato, la framassoneria. Si pensi per esempio alla lettera scritta da un alto dignitario della Alta-Vendita dei Carbonari nel 1844 e che cadde provvidenzialmente nelle mani di Leone XII : « Noi dobbiamo arrivare al trionfo della rivoluzione attraverso un papa. Ora, dunque, per assicurarci un papa che faccia al caso nostro, si tratta subito di formargli una generazione degna del regno che noi sogniamo. Lasciamo da parte la vecchiaia e l’età matura; andate dalla gioventù e se possibile anche all’infanzia….E’ dalla gioventù che bisogna andare, è lei che dobbiamo addestrare, senza che le sorgano sospetti, sotto il vessillo delle società segrete. Una volta consolidata la vostra reputazione nei collegi, nei ginnasi, nelle università e nei seminari, una volta che abbiate colta la fiducia dei professori e degli studenti, fate che quelli che principalmente s’impegnano nella milizia clericale vogliano cercare il colloquio con voi…Questa reputazione darà accesso alle nostre dottrine nel seno di un clero giovane come nel più profondo dei conventi. Nel giro di qualche anno questo clero giovane avrà, per forza di cose, invaso tutte le funzioni: governerà, amministrerà, giudicherà, formerà il consiglio del Sovrano, sarà chiamato a scegliere il Pontefice che deve regnare e questo Pontefice, come la maggior parte dei suoi contemporanei, sarà più o meno imbevuto dei principi umanitari che noi stiamo iniziando a mettere in circolazione…Che il clero marci sotto il vostro stendardo credendo sempre di marciare sotto la bandiera delle Chiavi apostoliche. Tendete le reti come Simone Barjona; tendetele nel fondo delle sacrestie, dei seminari e dei conventi invece che nel fondo dei mari e se non sarete precipitosi, vi promettiamo una pesca più miracolosa che la sua…infiltrate il veleno nei cuori scelti a piccole dosi e alla sprovvista; alla fine sarete voi stessi stupiti del vostro successo. Avrete predicato una rivoluzione in tiara e piviale (ndr paramento liturgico), marciando colla croce e lo stendardo, una rivoluzione che non avrà bisogno che d’essere un po’ stimolata per accendere il fuoco ai quattro angoli del mondo…Ciò che dobbiamo domandare prima di ogni altra cosa, ciò che noi dobbiamo cercare e attendere, come i giudei che attendono il Messia, è un papa secondo i nostri bisogni. Fate scivolare negli spiriti i germi dei nostri dogmi, che preti e laici si persuadano che il Cristianesimo è una dottrina essenzialmente democratica”. Ma la spiegazione attraverso le potenze occulte, pur pertinente che sia, non esaurisce il tema. Non si può passare sotto silenzio la situazione mondiale al momento in cui i Padri conciliari si riuniscono nel 1962. La vittoria nel 1945 delle democrazie alleate all’Unione sovietica ha incontestabilmente creato un ambiente del tutto sfavorevole al fiorire della Chiesa e dei valori cristiani. L’edonismo generalizzato, l’individualismo esacerbato, l’egualitarismo forsennato, il materialismo radicale della democrazia liberale e del comunismo ateo non potevano alla lunga che influire negativamente sugli uomini di Chiesa come sull’insieme dei cattolici. Più generalmente il fatto che le istituzioni non fossero più cristiane da lungo tempo nella quasi totalità dei paesi del globo, e singolarmente nella maggior parte dei paesi d’Europa, neppure poteva favorire la crescita dell’influenza della Chiesa. Il Vaticano II s’iscrive in un mondo già fortemente scristianizzato e abbattuto da due sanguinose guerre mondiali. In un secolo e mezzo, la Rivoluzione francese ha avuto il tempo d’istillare il veleno delle sue idee perniciose all’Europa intera, se non a tutta la terra, veleno prolungato dalla vittoria del protestantesimo anglo-sassone e del comunismo ateo nel 1945. Infine, la dominazione ogni giorno più insolente della tecno-scienza ha creato un ambiente assai sfavorevole alla diffusione della Chiesa. Senza dubbio converrebbe risalire al Rinascimento e al suo umanesimo per spiegare la genesi delle idee che hanno trionfato al concilio. Se la Chiesa ha resistito agli assalti del protestantesimo al XVI°, del giansenismo al XVII°, del naturalismo filosofico al XVIII°, del liberalismo al XIX° e del modernismo nella prima metà del XX° secolo, è quest’ultima eresia, stigmatizzata da san Pio X nella sua magistrale enciclica Pascendi (1907), che finì per sedurre la quasi-totalità della gerarchia cattolica. I FRUTTI VELENOSI DELL’“AGGIORNAMENTO” I frutti di questa sovversione religiosa e politica, dottrinale e pastorale non si sono fatti attendere: affondamento delle vocazioni religiose e sacerdotali, caduta della pratica religiosa, salita vertiginosa dell’indifferentismo religioso, del relativismo morale, dello scetticismo filosofico. Dal 1960 circa le nuove generazioni sono allevate nella totale ignoranza della religione; la trasmissione non si fa più. Il deposito della fede non è stato custodito da quelli che avevano il dovere sacro di conservarla. Quindi, nulla di sorprendente se da mezzo secolo che la Chiesa cattolica è seppellita, occupata, occultata ed eclissata dal trionfante modernismo e da che noi viviamo dunque dei tempi anticristiani, la società s’è completamente decomposta, liquefatta. In cinquant’anni, il mondo ha cambiato più che in due millenni. Abbiamo lasciato la civilizzazione edificata da secoli di sforzi, di sacrifici, di devozione per una barbarie infinitamente peggiore che quella di un tempo. Il nostro mondo ha rigettato con ostinazione la verità conosciuta. Ebbene, come profetizzava il cardinale Pie (2), « quando il Buon Dio non regna colla sua presenza, regna con tutte le calamità dovute alla sua assenza ». Non molto tempo fa anche coloro che non erano cristiani, anche quelli che facevano professione di rigettare manifestamente Cristo e la sua legge, erano loro malgrado impregnati di valori cristiani. Sapevano ciò che voleva dire la parola data, l’onore, la fedeltà, il coraggio, l’educazione, l’eroismo, la virtù. Al giorno d’oggi tutte le parole sono fuorviate. Per un bambino di sette anni la parola “amore” è già irrimediabilmente insozzata. L’uomo moderno non è più legato a niente, se non al suo telefono portatile e ad Internet. Ogni riferimento trascendente gli è estraneo. Volendo sopprimere Dio, si è conseguentemente soppressa la morale. Da qui uno scatenarsi di odio, di violenza e di nichilismo. Da qui famiglie divise, scoppiate, decomposte, ricomposte. Da qui bambini abbandonati a sé stessi. Da qui lo scatenarsi di droga e pornografia. Da qui il trionfo satanico di tutte le inversioni : matrimonio omosessuale, teoria del gender, vomitevoli Gay Pride che riuniscono ogni anno un numero sempre maggiore di partecipanti, etc. Da qui il ricorso massiccio agli antidepressivi e agli ansiolitici, agli psichiatri e ai maghi. Da qui il contagio dei suicidi. Da qui il regno del niente, il trionfo insolente della menzogna e di Mammona. Noi viviamo in questo momento tre episodi dell’Antico Testamento : la torre di Babele, il vitello d’oro e Sodoma e Gomorra. Dobbiamo credere che se la Chiesa cattolica non fosse stata tradita da quegli stessi che avevano l’incarico sulla terra di presiedere alla sua perennità saremmo finiti così ? TEMPI APOCALITTICI E ANTICRISTICI Infine, ci si può domandare se il Vaticano II non segni il punto finale d’un incessante arretramento della Chiesa cattolica iniziato da molti secoli. Al XI° secolo, l’Oriente lasciava la comunione della Chiesa romana collo scisma ortodosso; al XVI° l’eresia protestante si prendeva la metà dell’Europa ; il giansenismo pervertiva il XVII° ; il naturalismo della filosofia dei Lumi sconvolgeva nel XVIII° le fondamenta stesse della società, il liberalismo politico e filosofico combattuto dal Sillabo e da tutti i papi, da Pio VI a Pio XII, marcava della sua detestabile impronta il XIX° e assai logicamente il modernismo fu e rimane l’eresia del XX° e dell’inizio di questo XXI° secolo. Tuttavia, malgrado i colpi che le erano inflitti, malgrado i suoi arretramenti e le sue sconfitte, la Chiesa non abbassava le braccia. Ciò che perdeva in Europa, lo conquistava grazie all’evangelizzazione del nuovo mondo poi grazie alle missioni in Asia e in Africa. Nuove congregazioni religiose, altri istituti d’insegnamento vedevano la luce. La novità dopo il 1960, è che non si tratta più d’una crisi di crescita ma, incontestabilmente, d’una crisi di coscienza. Se il Vaticano II è stato possibile, e se si ebbero purtroppo così poche reazioni, è senza dubbio in fin dei conti perché il credere era divenuto superficiale, se non fittizio, meramente esteriore. Molti avevano fretta di disfarsi d’una morale giudicata retrograda, di dogmi contrari allo spirito progressista e razionalista, d’una obbedienza a Cristo e alla sua legge vissuta come eccessivamente coercitiva. Si pone allora una ultima questione : come uscire da questa crisi ? Pare vano aspettarsi un ritorno dei modernisti alla fede cattolica, gli stessi che hanno commesso la colpa imperdonabile di combattere la verità conosciuta, peccato contro lo Spirito Santo e che rifiutano di vedere i disastri che le loro eresie e la loro apostasia non smettono d’ingenerare. Inoltre, i modernisti sono riusciti a neutralizzare quasi tutte le resistenze, i gruppi così detti tradizionalisti aderendo gli uni dopo gli altri alla Roma apostata o anelando nel trovare un accordo con quegli stessi che distruggono la fede. Prima di loro, la quasi totalità dei vescovi conservatori raggruppati nel Coetus internationalis patrum avevano finito per accettare il Vaticano II e le riforme che ne sono uscite, sottoscrivendo subito i decreti del conciliabolo nel 1965 ed applicando la rivoluzione conciliare nelle loro rispettive diocesi. La crisi spaventosa che noi viviamo ha una evidente dimensione escatologica, bisogna essere ciechi o in mala fede per ignorarlo. Se San Paolo ha predetto a Timoteo che « verranno i giorni in cui gli uomini non sopporteranno più la santa dottrina”, se il cardinal Pie ha profetizzato che « la Chiesa si sarebbe ridotta a dimensioni individuali e domestiche », se la Santa Vergine disse a Mélanie a La Salette che «Roma perderà la fede e diventerà la sede dell’Anticristo », se si dice nella versione integrale dell’Esorcismo di Leone XIII « Là dove fu istituita la sede del beato Pietro e la sedia della Verità, là hanno posto il trono del loro abominio nell’empietà, in maniera che essendo colpito il pastore, il gregge possa essere disperso », se con la sinassi di Paolo VI noi vediamo « l’abominio della desolazione nel luogo santo » (Matteo XXIV, 15), nondimeno il Cristo, capo della Chiesa, ha promesso alla istituzione che ha fondato l’indefettibilità ed è forte di questa promessa divina che malgrado le tenebre attuali, le rovine che dovunque s’accumulano, i cristiani fedeli conservano nel cuore un’ invincibile speranza sovrannaturale. Sicuri che il ritorno di Cristo che distruggerà l’Anticristo « col soffio della sua bocca » (Tessalonicesi II, 8) quando dalla Parusia renderà a ciascuno ciò che gli è dovuto e porrà un termine definitivo ai tempi apocalittici che stiamo vivendo. (1) “Les porteurs de valise” - i portatori di valigia – così venivano chiamati quegli agenti al servizio del FLN (il fronte di liberazione nazionale che lottava per l’indipendenza algerina) che facevano uscire il danaro dalla Francia per metterlo a disposizione del FLN al Cairo, in Tunisia o in Marocco; costoro erano francesi reclutati alla causa antifrancese ed erano sovente intellettuali comunisti o cristiani progressisti.(2) Louis-Edouard Cardinal Pie (1815-1880), vescovo di Poitiers, una delle più eminenti figure della Chiesa di Francia nel XIX° secolo, è considerato uno dei maggiori difensori dell’ortodossia di fronte agli errori del razionalismo e del liberalismo.

lunedì 15 ottobre 2012

LETTERA APERTA ALLE AUTORITA’ ECCLESIASTICHE: ESIGERE I TRIBUTI SEGUENDO SAN TOMMASO O MAMMONA?

Vorrei soffermarmi sulle recenti affermazioni di alcuni alti, prestigiosi e colti prelati, il cardinal Bagnasco presidente della CEI, mons.Caffarra arcivescovo di Bologna e mons.Mazzoccato, arcivescovo di Udine, sul tema del pagamento dei tributi allo Stato. Ha affermato il primo che chi evade commette peccato, ha detto il secondo che pagare le tasse è un obbligo morale e ha tuonato il terzo che “l’evasione fiscale è un furto” giungendo a proclamare che “chi non versa le tasse si trattiene qualcosa che in realtà non è suo”. Ma è così, secondo la millenaria e consolidata dottrina cattolica? San Tommaso distingueva tre ordini di giustizia, quella legale - o generale - quella commutativa e quella distributiva. La prima è quella che orienta gli uomini al bene comune, è dettata dall’autorità e consiste nel dovere di sottomissione alle sue leggi. La giustizia commutativa è quella che si deve realizzare nei rapporti personali, ossia quando avviene uno scambio deve realizzarsi una giusta proporzione tra le due prestazioni in modo tale che nessuno dei contraenti ne riceva danno. Nella giustizia distributiva prevale un aspetto sociale, ossia la distribuzione dei beni comuni che deve raggiungere tutti i componenti della comunità, ma non necessariamente in maniera uguale bensì proporzionata non solo alle esigenze ma anche ai meriti, all’onore e allo status delle persone. Ciò detto sorge la necessità di differenziare, giuridicamente, il concetto di tassa da quello di imposta. La prima è ciò che lo Stato richiede come corrispettivo di una sua prestazione; se vuoi un certificato lo paghi, se vuoi un servizio corrispondi allo Stato l’ammontare del costo. Qui viene in evidente considerazione la giustizia commutativa; poco importa che uno dei soggetti sia lo Stato, perché prevale l’aspetto del rapporto di scambio e conseguentemente sorge la necessità di una giusta proporzione tra il dato e l’avuto. La seconda invece, come il nome suggerisce, rappresenta un contributo coattivo prelevato dalle attività economiche e dal lavoro per assicurare un’entrata economica al bilancio dello Stato e una copertura finanziaria dei servizi pubblici. L’ imposta non è connessa a una specifica prestazione da parte dello Stato o degli enti pubblici e la sua base imponibile è la ricchezza su cui viene applicato il prelievo. L’istituto dell’imposta si collega dunque sia al concetto di giustizia distributiva sia a quello di giustizia legale e non deve violare i principi di quella commutativa; è giusto e doveroso che ognuno conferisca alla società, per i bisogni collettivi, una quota dei propri beni in proporzione alle sue capacità – ma va sottolineato che la dottrina cattolica respinge decisamente una concezione, quale sembra emergere dalle parole di mons.Mazzoccato, socializzata e statalista della proprietà privata che, caso mai, deve essere orientata a scopi sociali - ma l’autorità civile deve usare i beni messi in comunione attraverso una equa distribuzione tra i membri della società e un utilizzo conforme alla giustizia e alle necessità fondamentali dello Stato. Mons. De Paolis, già Segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e oggi cardinale Delegato Pontificio per la Congregazione dei Legionari di Cristo e già Presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede affermava: “il Legislatore ha il diritto di imporre le tasse, il cittadino ha il dovere di pagarle, ma il governo deve usare bene quei soldi: se li usa male o se la tassazione è eccessiva, viene a mancare il presupposto”. Chi ha ragione, allora, Mons.Bagnasco o Mons. De Paolis? Seguendo il ragionamento del secondo - e della dottrina tradizionale - il diritto dello Stato all’imposizione fiscale non si pone come assoluto ma relativo, ossia deve obbedire ad un ordine morale oggettivo e quindi il dovere fiscale dei cittadini è condizionato dall’essere l’imposta “giusta” – ossia finalizzata al bene comune – e “non eccessiva”. Vediamo allora come funzionano tasse, imposte e quali destinazioni sono riservate al danaro prelevato. Se ci soffermiamo ad esaminarne qualcuna tra le decine in vigore, ci piace ricordare la tassa sui cani, sull’autovettura, quella sui gradini che s’affacciano sul marciapiede e sull’ombra proiettata da un balcone o da una sporgenza sul suolo pubblico o, ancora, quella sui passi carrai; qual è la controprestazione che lo Stato offre a chi possiede autovetture, cani, gradini, proietta ombre e vuole uscire di casa senza usare l’elicottero? In che cosa consiste il beneficio somministrato dall’ente pubblico? Nel non murare il nostro cancello? Nel non mandarci a casa l’accalappiacani? Nel non abbattere a cannonate gradini e balconi? Nel non sgonfiarci le ruote dell’auto tutte le volte che la usiamo e la parcheggiamo? Nel non notificarci a casa la cartella esattoriale se chiniamo la testa e paghiamo? E queste solo per ricordare le più ridicole e vessatorie. Ci troviamo evidentemente di fronte ad una totale carenza di giustificazione sotto il profilo del principio commutativo; nessun beneficio, in questi casi paradigmatici e in decine di altri, sussiste per chi paga il tributo che, gabellato come “tassa”, in realtà è un vero e proprio balzello senza un pur minimo fondamento sinallagmatico che lo giustifichi. Le imposte, che colpiscono redditi, patrimoni e transazioni suscettibili di apprezzamento economico, la fanno però da padrone. E tra queste vorrei ricordare i tributi che gravano sulle transazioni: l’imposta di registro che colpisce spostamenti di ricchezza che però non significano necessariamente un aumento del proprio patrimonio; chi compra una casa non se la vede regalare dal vecchio proprietario ma deve pagarla e la acquista con danaro che, frutto di risparmio, non è che il residuo di un capitale già colpito da imposta e che quindi ha già “assolto” ad una pretesa ed ipotetica funzione di giustizia legale e distributiva. Chi, in forza d’una sentenza, si vede riconoscere il diritto alla restituzione d’una somma dovuta e su cui, privato o impresa , già deve pagare o magari già ha corrisposto l’imposta sul reddito, perchè deve versare allo Stato un’ulteriore percentuale come imposta di registro? Perché questa duplicazione ingiusta e vessatoria? E come giustificare gli altissimi tassi che gravano sugli stipendi e sulle entrate dei cittadini? Le imprese, secondo una recente analisi, sono colpite da un’imposizione che complessivamente supera il 60% del reddito prodotto. E i lavoratori, autonomi e dipendenti, che sopportano il peso dell’imposta indiretta sui propri consumi, pagati con danaro già colpito dal prelievo che grava sul reddito, vedono i loro guadagni più che dimezzati. E, ancora, come giustificare la tassa sulla proprietà della prima casa, acquistata con danaro già gravato dalle imposte sui redditi e dalla successiva corresponsione dell’imposta di registro? Facile rispondere che “lo Stato ha bisogno di soldi”. Perchè a questa pretesa giustificazione morale (di morale laica e dunque ben poco oggettiva ) si può contrapporre quanto già sottolineato ossia che, secondo la dottrina tradizionale della Chiesa, non esiste il diritto assoluto alla pretesa dell’imposta ma solo un diritto che può trovare giustificazione nella sua non eccessività e, inoltre, nella necessità per l’Autorità dello stato di realizzare il bene comune; in questo ampio concetto possiamo tranquillamente ammettere il raggiungimento di una migliore distribuzione del reddito attraverso la concessione di benefici sociali alle fasce più svantaggiate della popolazione e il mantenimento di quella complessa macchina amministrativa che serve(recte, dovrebbe servire) a far funzionare sanità, giustizia, scuola, polizia ed altre funzioni che si assumono di stretta competenza dello Stato; ma sempre a condizione che queste funzioni siano assolte senza sciali, clientele, corruttele e per scopi conformi al diritto naturale. Il prestigioso giurista cattolico Carlo Francesco D’Agostino affermava che “lo Stato che ci metta le mani sopra (la proprietà privata), all’infuori di quello che sia la giusta corresponsione dei servizi che rende - e dei soli servigi indispensabili al bene comune - è semplicemente un ladro ed un violento” Ed allora, anche a voler benignamente sorvolare su come quelle funzioni siano concretamente realizzate e quelle condizioni concretamente rispettate, va osservato che è ormai fatto notorio che il debito pubblico in Italia comprende vere e proprie voci di spesa , sempre crescenti, che non trovano alcuna legittimazione etica e/o esulano dai compiti primari dello Stato e comprendono regalie e benefici concessi alle caste parlamentari e politiche, mantenimento d’una burocrazia inutile e parassitaria, finanziamenti buttati nella partecipazione ad “operazioni di pace” che in realtà nascondono la complicità in veri e propri immorali ed indifendibili atti di guerra e d'invasione e altri innumerevoli sprechi che favoriscono le solite clientele. Lo Stato – lo “Stato Provvidenza” che ci viene presentato come portatore di benessere -ha invaso la nostra vita quotidiana e, come prezzo dell’invasione, getta come Brenno la propria spada sulla bilancia pretendendo che il peso del suo strumento di “occupazione” sociale, una burocrazia politica ed amministrativa che trova principalmente giustificazione solo in sé stessa, sia mantenuta dai sudditi dell’. Ma v’è di più; il debito pubblico è in gran parte conseguenza della svendita dello Stato della propria sovranità monetaria al sistema bancario. Lo Stato, emettendo titoli pubblici che consegna al sistema bancario che li riceve in contropartita del prestito di danaro che crea dal nulla, naturalmente s’indebita per il valore nominale corrispondente aumentato degl’interessi; alla scadenza lo Stato rimborsa il titolo al suo portatore che lo ha a sua volta acquistato dal sistema bancario che li ha venduti al pubblico; morale: il sistema bancario ha incassato, col costo tipografico delle banconote stampate, il rimborso del valore nominale dei titoli e l’ammontare degli interessi che lo Stato gli ha corrisposto drenando le necessarie risorse attraverso il sistema impositivo, in una spirale diabolica d’indebitamento e di strozzinaggio legalizzato. Può essere allora moralmente preteso, in nome d’una giustizia legale che implica il soddisfacimento dell’esigenza del “bene comune”, che il cittadino, a causa d’una scelta suicidaria dello Stato, retto evidentemente da insipienti, traditori e vili, s’impoverisca per alimentare l’arricchimento senza giustificazione logica ed etica del sistema bancario? O che si dissangui per permettere il perpetuarsi d’una ingente spesa burocratica che non trova alcuna legittimazione se non come strumento d’occupazione e di controllo? Dove sta la moralità, la giustificazione della finalità del bene comune? Dove sta il presupposto logico della pretesa fiscale dello Stato? Non è che gli alti prelati citati all’inizio confondano “Equità” con “Equitalia” ? Eppure la Chiesa , fino a poco tempo fa, non si sbagliava nell’indicare i propri nemici; quanto alla spesa burocratica Pio XII – papa Pacelli - affermava che “I bisogni finanziari di ogni nazione, grande o piccola, sono formidabilmente aumentati, per colpa, non solo delle tensioni o complicazioni internazionali, ma anche soprattutto, forse, della smisurata estensione dell’attività dello Stato; attività, la quale, dettata troppo spesso da ideologie false o malsane, fa della politica finanziaria, e in modo particolare della politica fiscale, uno strumento al servizio di preoccupazioni di ordine totalmente diverso. […] Ecco perché rivolgendosi a coloro che hanno qualche parte di responsabilità nel maneggio delle questioni di finanza pubblica, [la Chiesa] li scongiura: in nome della coscienza umana, non rovinate dall’alto la morale! Astenetevi da provvedimenti che […] urtano e feriscono nel popolo il sentimento del giusto e dell’ingiusto, o ne pospongono la forza vitale, la legittima ambizione di cogliere il frutto del proprio lavoro, la sollecitudine della famiglia; considerazioni queste, che meritano di occupare il primo posto, non l’ultimo, nella mente del legislatore” (PIO XII, Allocuzione ai membri del Congresso dell’Istituto Internazionale delle Finanze pubbliche, 2 ottobre 1948). E a proposito della concentrazione della proprietà del danaro così scriveva Pio XI – papa Ratti – nell’enciclica “Quadragesimo anno” del 1931: “E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento (…) Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare”. E nella medesima enciclica così si affermava in ordine ai rapporti tra Stato ed individuo: “La pubblica autorità però, come è evidente, non può usare arbitrariamente di tale suo diritto; poichè bisogna che rimanga sempre intatto e inviolato il diritto naturale di proprietà privata e di trasmissione ereditaria dei propri beni, diritto che lo Stato non può sopprimere, perché l'uomo é anteriore allo Stato (enc. Rerum novarum, n. 6), ed anche perché il domestico consorzio è logicamente e storicamente anteriore al civile (enc. Rerum novarum, n. l0). Perciò il sapientissimo Pontefice (Leone XIII) aveva già dichiarato non essere lecito allo Stato di aggravare tanto con imposte e tasse esorbitanti la proprietà privata da renderla quasi stremata. Poiché non derivando il diritto di proprietà privata da legge umana, ma da legge naturale, lo Stato non può annientarlo, ma semplicemente temperarne l'uso e armonizzarlo col bene comune (enc. Rerum novarum, n. 35)”; San Tommaso d’Aquino insegnava che «il regno non è per il re, ma il re è ordinato al buon governo». Ossia il fine dell’autorità civile è soltanto il bene comune dei cittadini. Oggi lo Stato invade arbitrariamente la vita dell’uomo, schiacciandolo sotto il peso di una burocrazia corpulenta, cercando di porre sotto il proprio controllo ogni aspetto della sua esistenza e facendogli pagare a caro prezzo questa sua intrusione; magicamente lo Stato invece scompare là dove una sua presenza potrebbe garantire un ordinato sviluppo economico e sociale, ossia nel campo monetario e creditizio in cui ha lasciato via libera alle forze sempre più incontrollate della speculazione finanziaria e dell’usura legalizzata; e qui il prezzo che si pretende far pagare al cittadino è ancora più salato. Deve pagarle allora lui le scelte sciagurate dello Stato, dettate da insipienza, viltà e tradimento? Diteci, dunque: dobbiamo ubbidire alla giustizia secondo San Tommaso o secondo Mammona?

lunedì 24 settembre 2012

IMMIGRAZIONE: LE RAGIONI DI UN NO.

LA C.D. “INTEGRAZIONE” La prima ed immediata considerazione che s’impone nell’affrontare la questione dell’immigrazione parte dalla constatazione che i suoi entusiasti partigiani utilizzano una parola, magica, che dovrebbe, come d’incanto, risolvere ogni dubbio, ricacciare ogni perplessità, vincere ogni contraria opinione: “Integrazione”; ossia divenire parte di un tutto, consolidarsi ed armonizzarsi in un insieme; immagine che naturalmente evoca uno scenario comunemente e obbiettivamente accettabile. Ma la realtà è molto più cocciuta dei sogni degli uomini. In Francia, Inghilterra e Germania, nazioni che ospitano (soprattutto le prime due, per motivi legati al loro passato coloniale) il più alto numero di immigrati d’origine extraeuropea e che per questo dovrebbero essere, in primis culturalmente, attrezzati ad ospitarli, importanti esponenti politici – di area sia conservatrice sia riformista – hanno riconosciuto il fallimento della società multi-razziale e la sostanziale inapplicabilità del modello “integrazionista”. Non solo per le evidenti percentuali che legano il fenomeno dell’immigrazione alla delinquenza o all’illegalità ma, non meno significativamente, per i comportamenti che le famiglie d’immigrati – e si parla naturalmente di quelle provenienti da culture e latitudini differenti – continuano a mantenere nei territori dell’Europa; diversi rispetto a quelli normalmente praticati dalle popolazioni locali, spesso incompatibili con questi, ed impermeabili a qualsiasi esigenza di adeguamento. L’osservazione del passato avrebbe già dovuto mettere in guardia gli apprendisti stregoni della società multirazziale; persino nei territori che aprirono le porte all’immigrazione per necessità di popolamento e sviluppo economico – paradigmatico l’esempio degli Stati Uniti tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento – e dove – mancando un ceppo originario di consolidate generazioni – avrebbe potuto germogliare uno spirito integrazionista, si produssero fenomeni di separazione etnica e nazionale: quartieri africani, indiani, latinoamericani, cinesi ed italiani furono lì a dimostrare che gli antichi romani avevano già capito tutto quando dicevano “pares cum paribus facillime congregantur”, ossia ognuno cerca di stare coi propri simili. E non è un caso, trattandosi di un fenomeno del tutto naturale, che anche gl’immigrati di seconda o terza generazione, diversamente da quanto pensavano o addirittura auspicavano i paladini del melting pot, tendano a creare il nucleo familiare con persone della stessa provenienza etnica. E’ sotto gli occhi di tutti, dunque, che il fenomeno migratorio sta producendo una spaccatura nelle società europee che si manifesta apertamente come vera e propria ghettizzazione razziale. Nonostante il contatto colla realtà occidentale, gli immigrati continuano a vivere nella loro, fatta di abitudini e stili di vita completamente diversi e, caso mai, se spaccature si creano nel loro mondo, queste discendono dalla volontà di qualche esponente di nuova generazione di voler adottare o scimmiottare i peggiori esempi del modello occidentale. La coesistenza di questi mondi distinti crea disagio e sensazione di sradicamento ed è proprio in queste ragioni che s’innestano i sempre più frequenti episodi di violenza collettiva degli immigrati di seconda e terza generazione nei quartieri popolari francesi e inglesi – per non parlare dei quotidiani esempi di teppismo individuale e collettivo in ogni città che ospita comunità afro-asiatiche; questi “nuovi europei” sanno di non far/poter far parte del mondo in cui sono stati proiettati, vorrebbero magari condividerne gli aspetti più deteriori – a partire dalla sfera consumistica e sessuale - ma la loro esclusione/autoesclusione sociale, conseguenza di fattori ineludibili, tra cui la loro stessa cultura, glielo impedisce, scatenando così rancore, frustrazione e risentimento verso la società che li ospita. MODELLI CULTURALI. Appare difficile, oggi come oggi, individuare qualche aspetto positivo della società europea e/o occidentale; mettendoci di buona lena a rimuovere gli strati di fango che hanno coperto le nostre torri, i nostri antichi palazzi e le nostre cattedrali potremmo rinvenire, nell’eredità alla quale sembra abbiamo rinunciato (ma che resta intatta nel nostro spirito e che prima o poi riemergerà smaltiti i fumi delle sbornie intellettuali ed ideologiche), il culto della bellezza e dell’armonia come proiezione della virtù e della pulizia interiore, una certa idea di libertà, intesa non come diritto assoluto ma in quella forma che i romani seppero forgiare ossia un giusto ed equilibrato rapporto dell’individuo con l’autorità per l’interesse superiore della patria e, last but non least, la presenza e la rilevanza dell’elemento femminile. E’ proprio tale ultimo aspetto forse quello che più caratterizza lo “spirito” dell’Europa e lo distingue in maniera evidente da altre realtà storico-civilizzazionali; e a partire dai suoi miti fondatori: l’Iliade e l’Odissea, vere e proprie bibbie della nostra civiltà, vedono tra i principali protagonisti proprio delle donne, descritte secondo le variegate sfaccettature della femminilità: la cinica ed appassionata Elena, la dolce e disperata Andromaca, la paziente e fedele Penelope. E la presenza della donna percorre tutti i secoli e le vicende delle civiltà europee: Grecia, Roma, il medioevo, come dimostrano le arti figurative e la letteratura, la vedono protagonista della vita sociale e degli stessi avvenimenti storici, con un ruolo differente rispetto al suo naturale interlocutore – secondo i modelli di una società organica, dunque ordinata – ma non per questo meno rilevante. Ben diverso rispetto a quei modelli familiari e sociali dove la donna – se non addirittura mero strumento riproduttivo o di piacere – è posta in una condizione di avvilente subordinazione rispetto all’uomo. E’ difficile dunque immaginarsi che la “integrazione” - intesa anche come “scambio culturale” - di popolazioni che adottano simili modelli possa apportare un’iniezione di positiva novità nel nostro già devastato sistema sociale. E il giudizio prognostico appare ugualmente infausto se esaminiamo il grado di libertà, di equilibrio sociale, di tradizioni civili che la storia dell’Africa e del subcontinente asiatico hanno prodotto. Basti pensare allo schiavismo che, grazie all’islam e alle lotte tribali, ha flagellato il continente nero dal settimo secolo dopo Cristo fino all’inizio del 1900 (e che, tutti dimenticano, fu proibito dagli stati coloniali nei territori conquistati)! E che ancora adesso continua a manifestarsi in maniera velata in Arabia e nei paesi del golfo persico dove società puritane ma moralmente corrotte sfruttano in maniera indecente immigrati che provengono dal quarto mondo. Gli sventurati, originari di paesi colpiti da secoli di sciagure e violenze, che sbarcano sulle spiagge europee sono l’espressione e portano con sé i germi di quelle storie e di quelle culture; e solo chi è in mala fede o, peggio ancora, sciocco può pensare che essi siano in grado di trasmetterci qualcosa di utile. Un paragone è d’obbligo: caduto l’impero romano, i barbari che da tempo s’erano installati nei suoi territori (e la cui presenza ne aveva accelerato la fine) non pensarono di introdurvi altri ordinamenti ma, al contrario, accettarono la legge romana e il cristianesimo riconoscendone la superiorità; il primo re d’Italia, il barbaro Odoacre, si fece garante di quella volontà di continuità inviando le insegne imperiali di Roma all’imperatore d’Oriente; e quell’apporto di sangue nuovo fu salutare per il destino dell’Europa. I nuovi barbari non riconoscono – né sarebbero in grado di farlo vista la sostanziale anarchia esistente oggi – i valori che, seppur deformati, reggono la nostra civiltà; alcuni sono attratti dalle distorsioni malaticce che la nostra società produce, consumismo e libertà senza limiti, di cui però a malapena si godono le briciole, ciò che determina la loro rabbia; altri ritengono che quelle distorsioni siano l’essenza della nostra civiltà che, dunque, disprezzano e da cui si isolano; in un caso come nell’altro la distanza e, soprattutto, l’incomprensione appaiono incolmabili. IMMIGRAZIONE E NUOVO ORDINE MONDIALE. Non v’è dubbio che una parte consistente di immigrati svolge i lavori meno gratificanti che, alcuni sostengono, gl’italiani e gli europei non sarebbero più disposti ad eseguire. Sarebbe facile in questo momento rispondere che la crisi economica sta spingendo i lavoratori del vecchio continente ad accettare qualsiasi tipo di occupazione e, dunque, l’esigenza sopra sottolineata si sta via via dissolvendo. Ma ritornando alla prima considerazione occorre tener in conto che certi lavori a basso salario (si calcola che un extracomunitario percepisca in Italia il 30% di meno rispetto ad un italiano) possono ben essere accettati da chi vive, ed è disposto a vivere, in condizioni miserrime, ammassato in appartamenti fatiscenti, o contando su agevolazioni nell’assegnazione di alloggi o di altri benefici che molti pubblici amministratori generosamente riservano loro dimenticando i propri concittadini, ossia coloro che col proprio lavoro ed il proprio carico tributario per decenni hanno permesso la costruzione ed il mantenimento di scuole, strade, ospedali, mezzi pubblici e altre fondamentali strutture sociali. Ma occorre andare al di là di questo dato e chiedersi a chi giova l’esistenza di una massa sradicata pronta per essere trasformata in mano d’opera disposta a lavorare a basso salario, non sindacalizzata e che solo sul lavoro può contare per mantenere, almeno teoricamente (ma di fatto non è così) il diritto a restare sul nostro territorio. Rispondere che tutto ciò corre a vantaggio dei datori di lavoro, che così possono contare su una mano d’opera più remissiva e meno cara, coglierebbe solo un aspetto certo rilevante ma solo parziale del problema. Sono da molto tempo operanti alcune centrali politico-economiche che agiscono a livello internazionale, al di sopra della normale percezione del cittadino e anche al di sopra della portata dei singoli governi statali la cui azione riescono ad influenzare; lo scopo di queste centrali è favorire la creazione di un governo-ombra mondiale che di fatto si ponga come supervisore dei più importanti settori della vita economica e politica soprattutto allo scopo di un controllo assoluto dei mercati; la più antica e potente di queste centrali internazionali è il C.F.R. Conseil on Foreign Relations (di chiara origine anglosassone) che dal 1921 è inserito ai massimi livelli dell’ establishment politico e finanziario degli Stati Uniti e utilizza i suoi governi come esecutore delle sue analisi e delle sue diagnosi. Ecco qui un’interessante sintesi del pensiero del CFR, secondo le parole di John Foster Dulles, segretario di Stato del presidente Truman e membro influente di quell’organizzazione, che già nel 1942 evocava la creazione di “un governo mondiale; la chiara ed immediata limitazione delle sovranità nazionali; il controllo internazionale di tutti gli eserciti e forze armate; un sistema universale di moneta; la libertà mondiale di immigrazione; la eliminazione progressiva di ogni restrizione, di dazi e quote nel commercio mondiale e la creazione d’ una banca mondiale democraticamente controllata”. Logica conseguenza di ciò é la determinazione di queste centrali internazionali di indebolire fino alle radici (senza necessariamente eliminarle formalmente) le sovranità nazionali spingendo i governanti, attraverso azioni di infiltrazione, di lobbying o di pressione politica, ad adottare misure che favoriscano l’abbattimento delle tradizionali barriere esterne od interne poste a protezione dell’autonomia nazionale, attraverso liberalizzazioni o provvedimenti antinazionali e di natura chiaramente progressista e liberale. Tra queste misure, come emerge dalle parole di Foster Dulles, rientrano certamente tutte le leggi pro-immigrazione che, nessuno può seriamente dubitarne, costituiscono un potente congegno ad orologeria puntato contro l’identità nazionale a cui si aggiungono le leggi che concedono il diritto di abortire: venti milioni di europei non ebbero il diritto di nascere negli ultimi quindici anni; lo stesso numero (è un caso?) di extraeuropei che, ufficialmente, vivono nel vecchio continente; individui sradicati nel posto che la natura aveva riservato ai nostri figli e ai nostri fratelli: una vera e propria sostituzione di popolazione protetta dalla dottrina dei diritti dell’uomo. L’invasione (questo termine coglie la concreta dimensione d’un fenomeno che ha portato in Italia, ufficialmente, cinque milioni di stranieri a cui va aggiunto un altro 20% di clandestini, in Germania sette milioni; un discorso diverso merita la Francia dove il principio dello ius soli, ossia il diritto di cittadinanza che acquisisce chi nasce in territorio francese, rende inutile ogni conteggio basato sulla nazionalità; possiamo dire che ci sono circa sei milioni di residenti d’origine nordafricana e subsahariana che da soli costituiscono il 10% della popolazione; chi si è recato a Parigi ha potuto constatarlo de visu) rappresenta in realtà un vero e proprio parassita del sistema socio-economico: aumenta il livello di delinquenza e fornisce mano d’opera alla criminalità organizzata; indebolisce dal punto di vista sociale il tessuto di una nazione, creando scollamento e aree di marginalizzazione; introduce nel territorio nazionale culti religiosi estranei alle tradizioni locali; permette ai grandi gruppi industriali di poter giocare al ribasso sotto il profilo dei livelli salariali, assistenziali e di sicurezza sul lavoro; provoca un aumento della spesa pubblica, per costi burocratici, sanitari, assistenziali, addirittura pensionistici (quest’ultimi andando a favorire chi abbia appena ottenuto la residenza magari per motivi di ricongiungimento familiare!); permette il progressivo dissanguamento della liquidità interna: l’ammontare delle rimesse che ogni anno partono dall’Italia dai lavoratori stranieri verso i paesi d’origine ha superato i sette miliardi di euro e in Europa i trenta miliardi e stiamo, anche qui, parlando delle cifre ufficiali, ossia i trasferimenti “tracciabili”: soldi che non saranno spesi o investiti nei paesi dove sono incassati, ma che andranno ad arricchire altri territori a discapito delle economie europee. E soprattutto eccita il fervore umanistico dei progressisti d’ogni risma (politici, religiosi, intellettuali) che vedono nel disordine il compimento delle loro malsane utopie e che non si rendono conto che l’immigrazione è un fenomeno anormale perché non è né normale né auspicabile lo sradicamento forzato di milioni di persone dai propri paesi d’origine. IMMIGRAZIONE CINESE. Merita distinte considerazioni il fenomeno dell’immigrazione cinese. Essa, da secoli, è una costante geopolitica di questo popolo che, nella sua espansione territoriale ha usato i metodi degli antichi romani, ossia l’utilizzo del soldato contadino; combatte per conquistare e poi coltiva, e con successo, la terra acquisita, impiantandosi stabilmente. In Europa, e in Italia in particolare, questo metodo è applicato al commercio dove il cinese, a prezzo di turni di lavoro e di salari al limite dello schiavismo e di una quasi compelta indifferenza dei diritti del lavoratore e delle regole amministrative e igienico-sanitarie (ciò che sarebbe inconcepibile per un europeo) però contando su una cappa di ”omertá comunitaria” (favorita dalla circostanza che i cinesi asssumono solo compatrioti), ha acquisito settori di mercato; e lo ha fatto giovandosi di un aiuto “comunitario”, ossia i danari della criminalità organizzata che la presenza commerciale in Italia e in tutto il mondo permette di riciclare agevolmente. E’ inoltre un dato notorio che il commercio cinese in Italia – e particolarmente quello relativo all’abbigliamento – si svolge nella quasi totale irregolarità fiscale e amministrativa; e in alcune occasioni col silenzio delle nostre autorità preposte ai relativi accertamenti ; non si spiegherebbe altrimenti l’assoluta libertà con cui la presenza cinese, fatta anche e soprattutto di laboratori illegali, è riuscita a distruggere economicamente la città di Prato, capitale del prodotto tessile in Italia e una delle più importanti d’Europa (da dove, secondo fonti ufficiali, giornalmente partono rimesse per l’estremo oriente pari a 500.000 –cinquecentomila- euro). A fronte dell’iniziativa della polizia che aveva incominciato ad intensificare i controlli per reprimere l’illegalità commerciale, intervenne addirittura l’ambasciatore cinese per assicurare i suoi buoni uffici presso le autorità municipali e affievolire la pressione sui propri connazionali. Questo semplice episodio è il riflesso del costante interesse geopolitico che il governo cinese attribuisce alla sua emigrazione che considera come uno strumento di espansionismo economico e che si trova, paradossalmente, rafforzata dalla stessa natura ultra-identitaria del suo popolo, stretto da duemila anni attorno alla propria lingua – che ha costituito il vero collante nazionale – e alla propria etnia “han”. Le comunità cinesi vivono per loro conto, non si mischiano con altre e proteggono caparbiamente dagli sguardi indiscreti la propria “città proibita”. Alla faccia dei profeti della “immigrazione-integrazione”. SOLUZIONI. Negli ultimi anni è totalmente mancata in Europa la volontà politica di contrastare l’immigrazione; e anche governi di impostazione non progressista hanno spalancato le porte all’invasione extracomunitaria; basti pensare che fu proprio il governo Berlusconi nel 2002, un anno dopo il suo insediamento e nonostante le promesse elettorali di contenere l’immigrazione, che varò col voto favorevole della Lega Nord una sanatoria che permise la regolarizzazione di oltre 700.000 immigrati che si trovavano in condizioni di irregolarità o clandestinità; e a questi si aggiunsero altre centinaia di migliaia di nuovi arrivi grazie al diritto di ricongiungimento familiare. E tutti i governi, di centro destra e di centro sinistra, hanno continuato la politica dell’accoglienza stabilendo , ogni anno, le quote d’immigrati per ogni paese straniero, secondo le domande di lavoro. A ciò occorre aggiungere l’approccio completamente sbagliato che è stato adottato in Italia per combattere l’immigrazione clandestina, ossia l’utilizzo eccessivo dello strumento giudiziario; che ha portato – e tuttora porta - molti magistrati imbevuti di retorica progressista a disapplicare la normativa o a interpretarla in maniera favorevole alla libertà/impunità del clandestino; un caso su tutti, a dimostrazione del grado di criminale stupidità di certa parte della magistratura, quello avvenuto a Modena diversi anni fa, dove un giudice (appartenente alla corrente di sinistra, “magistratura democratica”) assolse alcuni nordafricani colpevoli di spaccio di droga per “stato di necessità”, ossia ritenne che la loro mancanza di mezzi di sostentamento li aveva “costretti” essi erano stati “costretti” al delitto; questo episodio, sicuramente paradossale nella sua abnormità, costituisce però la punta dell’iceberg sotto la cui superficie emergente ribolle una mentalità certamente meno rozza ma non meno pericolosa: quella della illuministica e rousseauiana incondizionata simpatia per il buon selvaggio, vittima e mai colpevole e bisognoso di comprensione e tolleranza da parte dello Stato, ma a spese dei cittadini che ne subiscono le conseguenze; il tutto in un crescente quadro di deresponsabilizzazione delle attività criminali degli “emarginati” e di colpevolizzazione dell’uomo bianco, reo di aver sfruttato il terzo mondo. La realtà carceraria italiana, però (cocciuta come tutte le realtà) conferma le valutazioni sull’indissolubilità dell’equazione “più immigrazione = più delinquenza”; oltre la metà della popolazione carceraria, a fronte d’una percentuale di residenti pari all’8-9%, è costituita da extracomunitari; e non solo clandestini ma anche in misura rilevante persone entrate legalmente nel nostro territorio. E’ inoltre incredibile come, nonostante il forte allarme sociale causato dall’aumento degli sbarchi di disperati sulle nostre spiagge, esponenti politici di varia provenienza si stiano facendo promotori dell’introduzione, nel nostro sistema legislativo (e la stessa cosa sta accadendo in Germania), dello “ius soli": concezione giuridica che consentirebbe, automaticamente, a chiunque nasca sul territorio italiano di acquisire la cittadinanza permettendo contemporaneamente ai suoi genitori di ottenere l’immediata residenza, primo passo per ottenere poi la cittadinanza. In Italia - ed in tutta Europa, ad eccezione della Francia - è in vigore il principio dello "ius sanguinis", secondo cui solo nascendo da almeno un genitore italiano si è cittadini, in linea coll’idea d’appartenenza nazionale, ossia una sintesi che esprime una medesima origine etnica e una comunanza linguistica e storica; e per ottenere la nazionalità italiana, a parte casi particolari, la legge attualmente richiede un tempo non inferiore a dieci anni di residenza legale e un’istruttoria approfondita da parte del ministero dell’Interno. Il concetto di nazione, che i partigiani (consapevoli o meno) del Nuovo Ordine Mondiale vogliono eliminare o subordinare alle regole d’un mercato globale, da esso controllato, si fonda sulla continuità generazionale e trova la propria espressione più reale in una comunanza di costumi e di leggi civili e sociali, in una comune appartenenza religiosa ed etnica, quest’ultima indicando né più né meno la medesima origine familiare, nel senso romano del termine. Lo ius soli è invece figlio di una visione cosmopolita, astratta e dunque irrealistica e non a caso adottata dalla visione illuministica e rivoluzionaria della Francia (ma sarebbe storicamente più corretto limitare questo il centro di questo flagello a Parigi) repubblicana; la stessa che si inventò la “dea Ragione” per sostituirla alla vera fede del popolo francese. E’ però in maniera istintiva evidente che l’essere italiani, tedeschi, francesi o spagnoli non può dipendere da un pezzo di carta e da qualche linea d’inchiostro; e il principio dello ius sanguinis deve essere mantenuto ed accompagnarsi con altre misure che riportino ordine nei nostri territori, ossia: 1) blocco immediato dell’immigrazione che appare oggi ancora più intollerabile se si pensa all’attuale momento di disoccupazione e alla grave crisi economica; 2) espulsione immediata di tutti coloro che abbiano commesso reati o siano clandestini o si trovino senza lavoro; 3) riforma della normativa in materia di espulsioni, contemplando l’accompagnamento coattivo alla frontiera in tutti i casi di permanenza illegale nel territorio; previsione di pene detentive da uno a sei mesi da scontarsi immediatamente, in caso di illegale reingresso, senza possibilità di concessione del beneficio della sospensione condizionale con espulsione e accompagnamento alla frontiera dopo l’esecuzione della pena; 4) rafforzamento dei controlli delle frontiere marittime e adozione delle necessarie misure atta a impedire, nel rispetto della Convenzione O.N.U. sul diritto del mare, l’entrata illegale di imbarcazioni nelle nostre acque territoriali; 5) coordinamento dei paesi mediterranei dell’unione europea per l’adozione d’una politica comune di controllo delle frontiere marittime; 6) censimento degli stranieri extracomunitari presenti sul territorio e concessione della residenza a coloro che, secondo una equa e umana valutazione, siano già stabilmente radicati nel nostro tessuto sociale. A chi obbietta che l’espulsione non sarebbe una misura concretamente possibile ricordiamo che, all’inizio del XVII secolo, dopo una serie di rivolte e vani tentativi di assimilazione, Filippo III di Spagna imbarcò di forza più di trecentomila moriscos musulmani sbarcandoli a Orano, da dove poi si dispersero nell’Africa del nord e nei territori dell’impero ottomano. Oltre alla necessità che ogni paese dell’Unione adotti una comune politica di lotta all’immigrazione, occorre aggiungere che simili misure potrebbero trovare ragion d’essere e un buon esito in presenza di due ulteriori condizioni: a) una riforma della politica familiare e di incentivo alla natalità, di cui l’Italia è totalmente priva ma che alcuni paesi europei stanno intraprendendo (soprattutto all’est), attraverso un sostegno sociale, economico ed anche culturale alla famiglia naturale e proibizione dell’aborto che, attualmente in Europa raggiunge la cifra di un milione e duecentomila ogni anno e b) una politica di intervento sociale ed economico degli stati europei nel continente africano che, attraverso concreti aiuti strutturali, consenta a quei popoli di vivere dignitosamente nelle proprie terre. Purtroppo, quest’ultima condizione manca dei più elementari presupposti, ossia la concreta possibilità delle nazioni europee di affrontare, in maniera coordinata ed uniforme, un decisivo cambio di marcia: respingere la colpevolizzazione del passato colonialista, riprendere possesso della propria identità e del proprio ruolo, dotarsi di strumenti di autonomia decisionale (politica, economica, monetaria, militare) – che oggi mancano a causa delle azioni di quelle centrali internazionali - che permetta loro di applicare il principio per cui la difesa del territorio la si inizia al di là degli stessi confini. In un mondo che si fa sempre più multipolare (e questo è confortante ove si pensi a quarantacinque anni di dopoguerra bipolare e di altri dieci anni di solitaria egemonia statunitense) e dove gruppi regionali si uniscono per costituire una massa critica di fronte alla realtà del globalismo, solo l’Europa rimane inerme, spettatrice muta e imbelle senza una chiara identità; alla quale in compenso non hanno rinunciato Cina, India, Russia, sud America, alcuni stati islamici che, insieme coll’asse capeggiato da Usa, Gran Bretagna, Israele , e dotati di sempre maggiori strumenti di potenza tecnologica e militare coltivano quello che alcuni hanno definito “orizzonte di guerra”, che non significa volontà di farla bensì di essere pronti a menare le mani quando questa diventa l’ultima opzione; ma neppure basta saper menare le mani perché bisogna anche possedere o darsi uno scopo, un traguardo e questo l’Europa – questa Europa - non ce l’ha proprio perché - come dicevamo prima – si vergogna del suo passato e si dimentica delle sue radici. Ed infatti le uniche missioni militari che le nazioni europee possono o sono chiamate a compiere vedono i loro governi e i loro soldati fare gli utili idioti degli interessi made in U.S.A. che, loro sì, un progetto ce l’hanno e si chiama “destino manifesto” che risale all’ottocento e da cui non si sono mai scostati. E finché il nostro continente sarà culturalmente colonizzato da un’ideologia che non le appartiene, quella progressista-liberale, col suo carico di egualitarismo, di ripudio del passato e di culto dell’economicismo , non ci sarà nulla che potrà fermare l’altra colonizzazione che stiamo subendo, quella – più visibile – della sparizione progressiva delle nostre etnie e la loro sostituzione con altre popolazioni.